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La battaglia sulla scuola – la più dura che Matteo Renzi abbia finora dovuto sostenere, e che appare tutt’altro che conclusa – segna un punto di svolta. Lasciamo per un attimo da parte il merito della riforma per riflettere sugli effetti che ha prodotto nella percezione che l’opinione pubblica ha di Renzi. E per analizzare il senso e le conseguenze della frattura che si è verificata.

Renzi arriva sulla scena quando il sistema politico è esausto, lacerato, sfibrato dopo vent’anni di guerra civile fredda e nel pieno dell’insorgenza grillina. Il suo messaggio è semplice: sono qui per ricostruire – ed è questa la differenza fondamentale fra rottamazione e vaffa – e voglio farlo con tutti voi. Il racconto di Renzi parla di riconciliazione, di sedazione del conflitto, di rammendo, di serenità: la sinistra (tutta la sinistra) si rinnova, Berlusconi non è più il Nemico, l’elettorato grillino può essere trasferito dalla rabbia alla speranza. E’ un racconto che funziona – e che sta alla base tanto del trionfo alle Europee quanto delle poche riflessioni serie che sono state fatte sul “partito della nazione” – perché è esattamente il racconto di cui l’Italia ha bisogno.

Oggi però non è più così: Renzi è diventato divisivo, come e forse persino più di Berlusconi; il Paese appare tutt’altro che riconciliato; minoranze rumorose intasano ogni giorno i social e le piazzette; l’elettorato di centrodestra si sta ricredendo sull’apertura di credito dell’anno scorso; Grillo riconquista consensi. Sebbene il capovolgimento sia stato lento e progressivo, si può fissare nella battaglia sulla scuola il punto di non ritorno.

La causa principale di questo rovesciamento è ovvia: chiunque faccia le riforme è destinato a scontentare i riformandi. Ogni leadership efficace è anche, in una certa misura, divisiva. Oggi però stiamo assistendo a qualcosa di più: al rifluire intimidito e deluso della speranza e ad una nuova, violenta esplosione di rabbia, nella doppia versione grillina e neoleghista. La protesta, che pure è sempre minoritaria perché corporativa, diventa nel sistema mediatico maggioritaria e pervasiva (non perché i media siano cattivi, ma per la logica interna del sistema), generando a sua volta altro scontento, altra rabbia, altra delusione.

Renzi si trova ad un bivio spietato: deve imprimere una nuova accelerazione alle riforme, perché è questa la sua unica ragion d’essere politica, e contemporaneamente deve ricucire le lacerazioni che quelle riforme provocano, perché soltanto le forze tranquille vincono le elezioni. In altre parole, deve mobilitare la maggioranza silenziosa: per ogni insegnante che rifiuta di essere valutato, ci sono cinquanta genitori che vogliono per i loro figli un insegnante preparato che lavora sodo – ma se non trovano un interlocutore, della riforma percepiranno soltanto il disagio causato dalle proteste. E così è per ogni proposta, per ogni legge, per ogni decreto.

Dopo l’insuccesso alle Regionali si è parlato, invero un po’ confusamente, di “mettere mano al partito”. Il nuovo Pd dovrebbe occuparsi precisamente di questo: selezionare la nuova classe dirigente e dare voce e respiro alla grande maggioranza degli italiani che studiano e lavorano in silenzio, non scendono in strada, non sanno che cos’è Twitter, non leggono i giornali e non hanno privilegi corporativi da difendere.

(post tratto dal blog di Fabrizio Rondolino)

Cosa deve fare Renzi per restare renziano. I consigli di Rondolino

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