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Nel quadro delle interdipendenze globali, l’Europa assomiglia sempre di più ad un vaso di coccio. Se le note debolezze interne ne condizionano la stabilità, il contesto internazionale sta minando dalle fondamenta un modello di crescita basato esclusivamente sull’export al di fuori dell’area: si va dai timori per le conseguenze sistemiche di un default della Grecia, mai scongiurato, alla evaporazione delle relazioni commerciali con la Russia; dalla instabilità del versante meridionale ed orientale del Mediterraneo alle conseguenze dello scoppio della bolla azionaria in Cina, appena tamponata.

L’Eurozona, lungi dal rappresentare un’area di stabilità, è fonte di gravi perturbazioni globali. Innanzitutto, esporta deflazione per via della bilancia commerciale finora strutturalmente attiva, soprattutto della Germania e di recente anche dell’Italia soprattutto per via dei bassi prezzi energetici e della brusca contrazione dell’import. In secondo luogo, determina continuamente scompiglio sul mercato dei capitali per via delle crisi interne: da quella della Grecia, Irlanda e Portogallo sin dal 2010, a quella di Spagna ed Italia nel 2011. Un default di Atene abbatterebbe il cambio dell’euro sul dollaro, facendo defluire capitali, quanto tutta la politica di annunci del Qe che è stata fatta da parte della Bce nel corso del 2014.

Per ragioni estremamente diverse, Usa, Cina, Russia e Paesi emergenti temono tutti un collasso dell’euro: mentre gli Usa subirebbero le conseguenze negative per la bilancia commerciale di un ulteriore rafforzamento del dollaro, Cina e Russia vedrebbero compromesso il loro obiettivo strategico di arrivare alla de-dollarizzazione dell’economia globale, rispetto a cui oggi l’euro rappresenta l’unica alternativa come strumento di riserva. I Paesi emergenti, ampiamente indebitati in dollari, vedrebbero accresciuto l’onere del rimborso.

L’Eurozona è caratterizzata da bassa crescita, elevati divari di produttività, alto indebitamento pubblico accresciutosi in dipendenza della crisi, posizioni finanziarie nette verso l’estero molto diversificate tra i diversi Paesi: ci sono debitori strutturali e creditori che accrescono in continuazione, per via degli attivi commerciali, le risorse disponibili in cerca di impiego. La Germania e la Grecia rappresentano le polarità opposte, in cui si chiede alla seconda di raggiungere i livelli della prima senza gli strumenti perequativi tipici degli Stati federali, ma unicamente attraverso le riforme strutturali che dovrebbero migliorare la produttività, e quindi la competitività internazionale, e soprattutto ridimensionare il disavanzo commerciale con l’estero contraendo le importazioni attraverso l’abbattimento dei consumi.

Per il resto, l’Europa è un continente che si è autocommissariato con il Fiscal Compact ed è sotto tutela finanziaria internazionale: alcuni Paesi lo sono formalmente, come Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Cipro, altri di fatto come l’Italia. L’intervento dell’ESM, del Fmi e della Bce che, in virtù del loro status non possono subire perdite e tantomeno accettare un default dei debitori, e l’appartenenza dei Paesi in difficoltà all’eurozona hanno evitato sia la ristrutturazione dei debiti (con l’eccezione della Grecia nel marzo 2012) sia la svalutazione. Il paradosso è che, mentre gli interventi del Fmi hanno sempre avuto come obiettivo e come risultato una riduzione del rapporto debito/Pil, con un abbattimento medio di 57,6 punti percentuali nei casi in cui c’è stata la ristrutturazione del debito e di 48,2 punti negli altri, in Europa la politica di rigore e gli interventi di salvataggio hanno portato sempre ad un aumento di questo rapporto. L’Eurozona tende così ad affondare, sotto il peso dei debiti pubblici accumulati per via della crisi e per la bassa crescita indotta dalle misure che dovrebbero assicurare il loro rimborso.

Lo scacchiere internazionale vede due aree di instabilità: ad est, va dalla Ucraina alla Russia; a sud, si estende dalla Tunisia fino all’Irak, propagandosi verso l’Africa sub-sahariana e la penisola arabica. Le relazioni politiche con la Russia sono state profondamente compromesse dalla crisi crimeana, e l’Europa ha perso per via delle sanzioni un partner commerciale di grande rilievo. L’instabilità politica endemica nel resto dell’area mediorientale sta facendo sfumare decenni di impegno nello sviluppo delle relazioni economiche: erano mercati elettivi per l’export europeo ed in prospettiva aree in cui potevano svilupparsi ampiamente industrie di sostituzione, come è accaduto negli anni scorsi in Tunisia, Marocco ed Egitto. E’ difficile immaginare un recupero a breve di questi mercati: per l’Europa, che tanto punta sull’export per sostenere la crescita, è quasi impossibile turare queste falle.

La terza criticità è rappresentata dalla instabilità della crescita della Cina, impegnata in una profonda modifica del modello di sviluppo, che abbandona il driver rappresentato dal surplus commerciale estero a favore dei consumi interni. La recentissima caduta dei valori delle Borse di Shangai e Shenzhen è già stata paragonata a quella subita da Wall Street nel 1929, vista la sovrapponibilità dei profili di crescita e di crollo dei valori. Altre similitudini sono rappresentata dal fatto che in entrambi i casi sono coinvolti milioni di risparmiatori, che la politica del credito è stata fortemente espansiva, che i prestiti bancari sono stati utilizzati per investimenti in Borsa dando in garanzia i titoli acquistati per ottenere altra liquidità, e che i tassi di interesse pagati alle banche sono di gran lunga più bassi dei guadagni sui corsi. Fin qui, dunque, nulla di nuovo: è una bolla azionaria come tante altre. Ciò che accomuna dal punto storico la situazione cinese attuale a quella americana del ’29 è il rapido ed inatteso arricchimento che si è avuto in entrambi i casi: negli Usa, era stato determinato dalle enormi forniture agricole e militari destinate all’Europa impegnata nella Prima guerra mondiale; in Cina, dal vorticoso aumento dell’export determinato dall’ingresso nel Wto cui è ha portato ad un ventennio di crescita spimeggiante.

C’è un secondo aspetto che accomuna le due vicende: la politica espansiva del credito, volta a fronteggiare la recessione dei Paesi importatori. La crisi dei debiti, dopo il Trattato di Versailles, attanagliava tutte le Nazioni europee, e legava il rimborso dei debiti verso gli Usa delle Potenze vincitrici al pagamento delle Riparazioni imposte alla Germania. La politica della Federal Reserve allora fu ampiamente espansiva, sia per finanziare gli importatori di merci americane, sia per aumentare l’inflazione dei prezzi in dollari e aiutare così l’Inghilterra nello sforzo deflazionistico a difesa della sterlina. In Cina è accaduto qualcosa di analogo: dopo la crisi finanziaria americana del 2008 e le successive ripercussioni in Europa, ha dovuto incentivare lo sviluppo dell’economia interna, con una politica monetaria e creditizia espansiva che si è indirizzata dapprima verso gli investimenti infrastrutturali, poi alla speculazione immobiliare ed infine a quella azionaria. Diversamente, la crisi del Nikkei ed il crollo del mercato immobiliare giapponese furono figli della difficoltà di trovare un impiego stabile al surplus commerciale. C’è una altra similitudine tra gli Usa del ’29 e la Cina odierna: la assoluta mancanza di politiche di welfare pubblico. La Social Security venne adottata come rimedio dopo la crisi, dal Presidente F.D. Roosevelt: ha rappresentato uno strumento di stabilizzazione non solo sul piano sociale, quanto su quello economico e finanziario.

Le prospettive di copertura pubblica dai rischi della disoccupazione, sanitari e pensionistici ha comportato una modificazione repentina dei comportamenti sociali: ha aumentato la propensione al consumo e ridotto quella al risparmio precauzionale. In Cina, la plafonatura degli interessi corrisposti ai risparmiatori ha sospinto dapprima la crescita dello shadow banking, poi la speculazione immobiliare e di recente quella borsistica. Se ora il mercato dei consumatori cinesi ad alto reddito dovesse chiudersi per via dell’impoverimento generato dal crollo borsistico, per l’Europa che punta sull’export sarebbe un’altra tegola sulla testa e soprattutto un’altra lezione.

Infatti, mentre in questi anni abbiamo cercato di “cinesizzare” i lavoratori europei, abbassando i salari e smantellando il Welfare State, che viene ritenuta una istituzione preistorica, incompatibile con le esigenze di competitività di un sistema globalizzato, la Cina si accorge di quanto sia instabile la accumulazione della ricchezza sociale affidata al mercato.

Una strategia di crescita export-led sta lentamente sfumando, per una ragione o per l’altra, quali che siano i nostri salari: è un’epoca che finisce per tutti, per l’Europa è un’altra porta che si chiude.

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