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È passato un anno dal successo della National ignition facility in California, quando per la prima volta nella Storia gli scienziati hanno raggiunto un guadagno netto di energia da un processo di fusione nucleare. Ci sono riusciti bombardando con 192 laser una piccola capsula contenente degli isotopi dell’idrogeno, “accendendo” il processo di fusione e liberando più energia di quella immessa. L’evento è diventato una pietra miliare nella storia della ricerca, una conferma della plausibilità della fusione, come aveva commentato su queste colonne il presidente dell’Associazione Nucleare Italiana Umberto Minopoli, scomparso poco tempo dopo.

Da allora gli scienziati del Nif hanno replicato quel successo diverse volte, racconta Nature – sicuramente altre tre, probabilmente cinque, stando ai loro calcoli e all’incertezza dei dati di due esperimenti. Per molti degli addetti ai lavori quei risultati “confermano che il laboratorio sta operando in un nuovo regime: i ricercatori possono ripetutamente raggiungere un obiettivo che inseguono da oltre un decennio”. Ci sono ancora delle grinze nel processo – minuscole variazioni negli impulsi laser o piccoli difetti nella capsula che consentono all’energia di sfuggire e rendono l’implosione imperfetta. Ma gli scienziati adesso hanno una comprensione migliore di come controllare le variabili in gioco.

Mentre al Nif si studia la cosiddetta fusione a confinamento inerziale, altrove si vuole ottenere lo stesso processo accelerando il plasma incandescente in una “ciambella” (tokamak) di super-magneti. A inizio mese, a Naka in Giappone, è entrato in funzione il reattore di questa tipologia più grande al mondo: si chiama JT-60SA, vale 600 milioni di dollari, conta tra i partner del progetto anche l’Enea e si prefigge di simulare l’operazione di quelle che potrebbero diventare le centrali elettriche del futuro. I risultati degli esperimenti giapponesi – incentrati sullo studio e la gestione del plasma – saranno utili ai due maxi-esperimenti di portata internazionale, rispettivamente Iter e Demo, che guardano rispettivamente al 2030 e al 2050 circa per l’entrata in funzione.

Sono tempi troppo lunghi per gli attori del settore privato, che nell’ultimo paio d’anni si sono riversati nel settore della fusione con un attivismo straordinario (c’è chi ha parlato di “momento SpaceX” della fusione) e la promessa di non solo dimostrare il processo entro il prossimo decennio ma renderlo un’alternativa commercialmente viabile. Oltre quaranta realtà private stanno sviluppando reattori più piccoli e semplici per riuscirci, attraendo circa sette miliardi di dollari in finanziamenti negli ultimi tre anni; la capofila è Commonwealth Fusion Industry, spin-out del Mit di Boston e partecipata da Eni, che ha attratto quasi due di quei sette miliardi.

I progressi nel settore non passano certo inosservati dai governi. Proprio dalla sede di Cfs, durante una visita in compagnia dell’ad di Eni Claudio Descalzi, l’inviato speciale della Casa Bianca per il clima John Kerry aveva annunciato che Washington intendeva svelare un piano per accelerare lo sviluppo della fusione alla Cop28 di Dubai. Detto, fatto: nei primi giorni della conferenza sul clima Kerry ha dichiarato che il piano coinvolge 35 nazioni e si concentra su ricerca e sviluppo, questioni di filiera, regolamentazione e sicurezza, sottolineando che “la fusione ha il potenziale per rivoluzionare il nostro mondo” e può diventare una delle soluzioni più potenti per rispondere alla sfida del cambiamento climatico.

Intanto le istituzioni degli Stati Uniti, dell’Unione europea e del Regno Unito si sono mossi sul terreno regolatorio per prepararlo all’avvento della fusione commerciale. I deputati statunitensi hanno separato la legislazione di fissione e fusione, una mossa che genera certezze per gli attori del secondo campo; i colleghi al Parlamento europeo hanno adottato la loro posizione sul Net Zero Industry Act, modificando la proposta iniziale della Commissione per includere le tecnologie per l’energia da fusione nel novero delle soluzioni per decarbonizzare l’economia; e nel Regno Unito è stato promulgato l’Energy Act 2023, rendendolo il primo Paese a creare formalmente il regime normativo per la fusione.

Anche l’Italia, nel suo piccolo, guarda al Sacro Graal dell’energia con speranza. A Repubblica, pochi giorni fa, il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin ha ricordato che la Piattaforma nazionale per il nucleare sostenibile – lo studio patrocinato dal suo ministero che nei prossimi mesi porterà alla nascita della strategia italiana per il nucleare – tratta anche di fusione. Nel mentre le principali realtà italiane contribuiscono ai lavori di Iter, nel Sud della Francia, e in particolare Enea ed Eni hanno dato l’avvio al consorzio che costruirà a Frascati (appena fuori Roma) il reattore sperimentale Dtt dove dal 2028 si studierà come gestire la potenza in eccesso.

Dagli Usa alla Cop28. I progressi della fusione nucleare nel 2023

A un anno dalla storica “accensione” al Nif californiano, gli scienziati replicano il risultato con costanza. In Giappone è da poco partito il reattore tokamak più grande al mondo, altro piolo sulla scala verso Iter e Demo. Nel frattempo il settore privato continua a correre, e alla Cop28 gli Usa hanno lanciato un consorzio internazionale per favorirlo, mentre i regolatori occidentali preparano il terreno

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