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“Non è più questione di numeri, ma di alta politica europea”, ha scritto Lawrence Summers sul Financial Times. E’ in ballo la tenuta dell’eurozona e della Ue, mentre i protagonisti dell’ultimo atto si giocano la faccia e la carriera in questa tragicommedia greca. Vediamo perché cominciando dalla prima attrice.

Angela Merkel deve dar prova di vera leadership in Europa, ma anche nella stessa Germania, tenendo a freno i falchi e soprattutto la Bundesbank che esercita la sua forte influenza sul ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble. Finora lo ha fatto. Certo, non può concedere troppo perché sente la pressione degli anti-euro anche nel suo Paese, ma non può nemmeno venire ricordata nella storia come la Cancelliera che ha cancellato (il bisticcio è voluto) l’unione monetaria.

François Hollande durante le trattative si è mostrato più disponibile, pronto a lasciare una via d’uscita al governo greco, ma non più di tanto perché a sua volta non vorrà essere ricordato come il presidente che spezza l’asse con Berlino e fa fondere il vecchio motore franco-tedesco (anche se è da tempo grippato). Persino Marine Le Pen glielo getterebbe addosso come una colpa.

Christine Lagarde si gioca il secondo mandato al Fondo monetario internazionale. Darà retta ai suoi economisti che da tempo le dicono di lanciare un chiaro segnale di svolta contro il Washington consensus, l’ortodossia rigorista che la crisi ha ormai affondato; oppure ai suoi azionisti visto che la Grecia con 35 miliardi di euro è diventata il più grande debitore?

Sulla graticola è anche Mariano Rajoy, il capo del governo spagnolo sotto la pressione di Podemos da un lato e dall’altro di una opinione pubblica che dice: perché i greci non vogliono fare i sacrifici che abbiamo fatto noi? Una posizione sorprendente visto che dimentica tutti gli aiuti e i favori ottenuti dalla Spagna: non solo il salvataggio delle banche, ma la possibilità di mantenere un disavanzo pubblico doppio rispetto al vincolo di Maastricht che consente di far campare un quarto della forza lavoro oggi senza un lavoro. A Madrid non viene chiesto di raggiungere un avanzo primario (al netto degli interessi) perché il suo debito resta sia pur di poco sotto il 100% del pil, dimenticando che dal 2007 a oggi è quasi raddoppiato. Come chiamare l’atteggiamento spagnolo: egoismo, ingratitudine?

Il governo italiano non si espone molto, ma di fatto sostiene Atene senza ottenere nulla. Matteo Renzi non chiede, anzi sembra contento che gli altri non chiedono niente a lui. Eppure avrebbe parecchio da rivendicare. Senza tracotanza né battere i pugni sul tavolo, ma per una operazione verità. L’Italia ha salvato da sola le sue banche; non del tutto, adesso ci vorranno anche denari dei contribuenti (sotto forma solo di garanzie?) per liberarle dai crediti marci, ma non è stato versato un euro dagli altri Paese.

Non solo. Il Tesoro, zitto zitto, in punta di piedi, allunga il debito, cerca di trarre vantaggio dai tassi così bassi e soprattutto lo sta rinazionalizzando: prima della crisi circa la metà era detenuta da soggetti esteri, oggi appena un quarto, in futuro anche meno. Se gli italiani si ricomprano i titoli di Stato, quei duemila e passa miliardi di euro sono meno esposti alle turbolenze finanziarie sul mercato mondiale. Un po’ come succede al Giappone. Il debito tanto alto resta un impedimento all’impiego produttivo del risparmio, agli investimenti e alla crescita, ma è un problema nazionale (visto che non si riesce ancora a internazionalizzare il debito sovrano nell’area euro).

Infine, va ricordato (e vantato nei confronti di Bruxelles) che l’Italia ha fatto la riforma delle pensioni (il limite di 67 anni è persino eccessivo visto che anche i tedeschi sono tornati indietro) e quella del mercato del lavoro, senza chiedere un centesimo a chicchessia. E’ vero, la Bce ha comperato titoli italiani, ma lo ha fatto anche con greci, spagnoli, portoghesi, irlandesi. Non ci sono stati né figli né figliastri, certo Draghi non può essere accusato di favoritismi nazionali.

Meritiamo un qualche riconoscimento perché abbiamo fatto meglio non solo nei confronti non solo dei greci, ma degli spagnoli. Possiamo fare di più, ma per questo abbiamo bisogno di un via libera a stimoli e incentivi fiscali. In occasioni come queste, in cui la partita diventa politica, bisogna chiedere e ottenere. Che cosa? Un lasciapassare per la crescita, la fine di questi controlli oppressivi sui conti; non una cambiale in bianco, ma una iniezione di fiducia sì.

Infine Alexis Tsipras. Il suo governo si è dimostrato un vero pasticcione, inaffidabile fino all’ultimo, addirittura facendo circolare bozze diverse (pura disorganizzazione gruppettara o piccole furbizie levantine?). Ma adesso il leader di Syriza deve dimostrare se ha o no gli attributi.

Da una parte deve dire no all’ala più intransigente, quella che vuole l’uscita dall’euro. Il 60% dei greci è per la moneta unica, secondo gli ultimi sondaggi e la maggiorana silenziosa comincia a farsi sentire anche nelle piazze. Un referendum (a questo punto auspicabile) potrebbe far cadere il governo che gode ancora la fiducia della maggioranza (stando sempre ai sondaggi), a condizione che porti a casa risultati senza mettere in pericolo la collocazione politica e strategica della Grecia.

Dall’altra, Tsipras ha bisogno di mostrare se possiede la stoffa da uomo di governo, un politico che sa quali sono gli interessi di fondo non solo dei suoi elettori, ma del suo Paese. Se saprà farlo, potrà restare in sella anche a lungo, altrimenti non s’illuda di durare, perché le forze che si coalizzeranno contro di lui (dai mercati alle cancellerie occidentali) finiranno per travolgerlo.

Ecco promossi e bocciati dopo l'accordicchio sulla Grecia

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