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Leggo divertito che il Fmi ha fatto sfoggio di grande prudenza suggerendo alla Fed di aspettare il 2016 prima di iniziare ad alzare i tassi, e mi convinco, una volta di più, che tanto è stato facile per la banca centrale americana quintuplicare i suoi asset e azzerare i tassi, tanto sarà difficile tornare alla normalità.

Peraltro il suggerimento del Fmi arriva proprio mentre la Fed deve fare i conti con un certo raffreddamento all’interno del FOMC della banca centrale Usa della passione per l’exit strategy, che già ai tempi del taper tantrum ha fatto i suoi danni, suscitando non poche preoccupazioni fra gli osservatori.

I banchieri americani, infatti, sembrano divenuti improvvisamente consapevoli che un rialzo dei tassi potrebbe essere causa di conseguenza indesiderate sull’ancora fragile ripresa globale.

Se a ciò aggiungente il deludente risultato del primo trimestre del Pil americano, rivisto in ribasso al -0,7% dopo una prima stima positiva per lo 0,2, capirete bene che l’exit strategy americana, timorosa di finire in exit tragedy, ormai si avvia a diventare un exit comedy, laddove il copione cela la sostanza del problema: i tassi bassi e i vari QE sono diventati la trappola nella quale le economie internazionali si sono infilate, sottovalutando le difficoltà di uscirne, e per giunta replicando un copione, quello delle svalutazioni competitive, che non andava in scena dagli anni ’30. A tal punto che l’età dello Zero lower bound potrebbe non essere un semplice incidente della storia, ma un suo tornante inaspettato.

Detto ciò, la questione diventa ancora più interessante se osserviamo il problema dei tassi americani non soltanto dal lato degli effetti, ampiamente previsti, che un loro rialzo può avere sulle economie emergenti che, lo ricordo, hanno debiti per trilioni denominati in dollari, ma notiamo che il contagio può avvenire su diversi canali, dei quali è interessante osservarne almeno due.

Il primo, insospettabile, è il ribasso dei corsi petroliferi, che aldilà dei benefici evidenti sul portafogli delle famiglie consumatrici e sulle bollette energetiche degli stati importatori, ne ha uno meno gradevole sull’equilibrio fiscale dei paesi esportatori.

Il secondo, che in qualche modo deriva dal primo, è l’effetto che una perturbazione economica dei Paesi emergenti ha sull’Europa, prima ancora che sugli Stati Uniti, e sull’eurozona in particolare, il cui sistema bancario rimane seriamente esposto nei confronti di questi Paesi, e per giunta delle loro compagnie petrolifere, ossia quelle che più patiscono il ribasso del petrolio.

Non è un caso che tali timori siano contenuti nell’ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria che la Banca centrale europea ha rilasciato nel mese di maggio.

Leggendolo ne traggo un convincimento che mi lascia di stucco: l’eurozona non dovrebbe più di tanto preoccuparsi della tenzone greca, ormai giunta al suo epilogo più o meno prevedibile.

Dovrebbe preoccuparsi dell’Angola.

La prudenza del Fmi e l’exit comedy della Fed

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