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C’è troppa «psicologia» e poca economia reale nel quantitative easing (Qe), l’allargamento quantitativo di Mario Draghi. E anche in molti commenti alla politica della Bce.

Il governatore centrale europeo afferma chiaramente che gli acquisti per 60 miliardi di euro, di bond dei debiti pubblici, di attività cartolarizzate (asset-backed securities) e di obbligazioni garantite, ogni mese fino a settembre 2016, ed eventualmente oltre, servono essenzialmente a far salire il tasso di inflazione fino al 2%. La mission del QE della Bce, quindi, è questo cosiddetto «medium term price stability».

Nel suo recente discorso al Center for Financial Studies di Francoforte dell’11 marzo ha ripetuto per almeno una dozzina di volte questa valutazione. Infatti, secondo la Bce, l’indicatore principale per poter dire se ci sono stabilità e ripresa oppure deflazione e crisi è costituito di fatto dal dato relativo all’inflazione. A noi sembra un approccio errato e fuorviante. Si tratta di una strana e limitativa idea, molto simile a quella che aveva il governatore della Fed, Ben Bernanke, negli anni del crac finanziario, quando intravedeva nell’andamento del mercato immobiliare americano l’oracolo per capire l’evoluzione della crisi globale. La domanda vera dovrebbe essere: quanta parte dei nuovi soldi immessi nel sistema andrà veramente a sostenere gli investimenti nell’economia reale e i redditi delle famiglie, generando maggiore occupazione?

Occorre tenere presente che le obbligazioni dei debiti pubblici saranno acquistate sul mercato secondario, di fatto quindi comprate dalle banche. Lo stesso dicasi per gli abs. Perciò la massa di liquidità fluirà nel sistema bancario e, ancora una volta, senza alcuna condizione. Infatti, al di la dei desideri del governatore Draghi, non c’è nessun impegno formale a che essa affluirà verso il sistema produttivo.

Del resto l’esperienza degli oltre mille miliardi di fondi Tltro, dalla Bce in passato messi a disposizione delle banche europee a bassissimi tassi di interesse, non è stata affatto positiva. Anzi, i crediti concessi dalle grandi banche ai settori non finanziari dell’economia sono addirittura diminuiti. Era di -3,2% a febbraio 2014, rispetto a dodici mesi precedenti, e si è ridotto a -0,9% lo scorso gennaio, ma resta sempre negativo. Soltanto le banche di credito cooperativo e quelle locali collegate al territorio hanno mantenuto e aumentato i flussi di credito alle Pmi e alle famiglie.

Mentre negli Usa l’accesso al capitale passa per due terzi attraverso il mercato e solo per un terzo attraverso il sistema bancario, in Europa è esattamente il contrario.

Draghi ammette che, acquistando titoli di Stato e abs, la Bce di fatto «pulirà» i bilanci delle banche che, di conseguenza, dovrebbero allargare i loro prestiti. In pratica, mentre è certo il beneficio al sistema delle grandi banche europee, non c’è affatto garanzia che esse aumenteranno i crediti alle industrie e alle altre attività volte alla modernizzazione e all’esportazione.

Certamente il QE della Bce farà scendere i rendimenti dei titoli dei debiti sovrani. Alcuni miliardi di euro di interessi saranno risparmiati. I bilanci degli Stati ne gioveranno. Si dovrebbero anche migliorare le condizioni di indebitamento delle imprese e delle famiglie. La maggior liquidità contribuirà a mantenere basso il cambio dell’euro nei confronti del dollaro e delle altre monete rendendo più competitive le esportazioni europee. L’altra faccia della medaglia sarà il maggior costo delle materie prime importate. Ovviamente gran parte di essa finirà per riversarsi sulle borse facendo salire i già gonfiati listini.

Le aspettative rosee della Bce si basano su delle desiderabili ricadute positive nel tessuto produttivo e nei consumi dell’intero continente. Si auspica un automatismo ancora tutto da verificare. Non vorremmo che fosse solo un pio desiderio.

Inevitabilmente, oltre alle grandi banche europee e ai loro alleati internazionali, i Paesi più solidi, come la Germania, saranno i maggiori beneficiari del QE in quanto la Bce distribuirà gli acquisti di titoli in relazione alle quote di partecipazione al suo capitale. La Grecia, purtroppo, ne resterà esclusa fintanto che non finirà il programma di revisione fiscale e di bilancio imposto dalla Troika.

Di fatto il gap tra il centro e le periferie dell’Europa, nell’economia e nella distribuzione del reddito, aumenterà invece di diminuire.

La scelta della Bce, per quanto importante e significativa, manca quindi di almeno tre elementi. Non impone delle regole di comportamento al sistema bancario. Non indica dei percorsi certi e controllati per far fluire la liquidità verso i nuovi investimenti. Non sollecita e non «guida» un vero programma di sviluppo, di investimenti e di infrastrutture che siano decisivi per la ripresa economica. La Bce, di fronte a queste sfide, si trincea dietro al suo mandato di semplice guardiano dell’inflazione. Noi riteniamo, invece, che tale giustificazione non sia accettabile rispetto alla necessità di un profondo e radicale cambiamento che l’Unione europea dovrebbe affrontare, pena la sua disgregazione.

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