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La prima non-notizia è che il Consiglio dei Guardiani non ha lasciato spazio, se non formale, a candidature appartenenti all’area pragmatico/riformista quando ha indicato i nomi di coloro che saranno autorizzati a competere per le elezioni presidenziali di fine giugno. La seconda non-notizia è che dunque la Repubblica islamica ha scelto di chiudere il cerchio del potere e di non rischiare sorprese alle urne: dunque non permettere nemmeno che si possa immaginare un cambio di rotta.

Solo sei delle 74 candidature presentante hanno passato il vaglio dell’organo teocratico che supervisiona i processi elettorali in Iran. E quanto comunicato la scorsa settimana significa, come fa notare una fonte che osserva il processo interno a Teheran, questo vuol dire che la leadership ha voluto evitare che l’accidentale interruzione del mandato di Ebrahim Raisi — morto in un incidente aereo il 19 maggio – potesse concludersi con un clamoroso cambiamento alle elezioni.

I nomi scelti sono (messi in ordine dai due più probabili vincitori fini alle comparse): Saeed Jalili, direttore dell’ufficio della Guida suprema per quattro anni); Mohammad Baqer Qalibaf, presidente del Majles ed ex comandante delle Guardie rivoluzionarie (Irgc); Alireza Zakani, sindaco conservatore di Teheran; l’ex ministro degli Interni Mostafa Pourmohammadi; il politico conservatore Amir-Hossein Ghazizadeh Hashemi e il parlamentare Masoud Pezeshkian, con scarsissime possibilità di ottenere consensi, il medico di padre azero e madre curda è l’unico riformista in corsa.

Il campo doveva essere occupato da Ali Larijani, ex presidente del Parlamento, che non è un riformista puro (il concetto è molto sfumato in Iran, dove i riformisti sono comunque figure fedeli al sistema teocratico, seppure abbiamo una visione meno rigida e più aperta ai cambiamenti). L’ex leader parlamentare è un conservatore pragmatico, dunque tendenzialmente più moderato di quelli che attualmente stanno segnando il corso del potere.

Per queste sue posizioni era già stato escluso nel 2021: nella sostanza, in questo momento la leadership ritiene che allentare anche poco la presa sul potere possa essere rischioso davanti alle crescenti proteste e a un malcontento che sta diventando diffuso, non solo per questioni di visione politica, ma anche perché le condizioni di vita stanno peggiorando mese dopo mese. Anche in ragione di questo contesto, Mahmoud Ahmadinejad è stato escluso dai contendenti: l’ex presidente conservatore (in carica dal 2005 al 2013) ha preso la traiettoria populista e cercato di farsi spazio tra i sentimenti popolare i assumendo anche posizioni critiche con il regime.

La breve lista di candidati approvati e le correnti politiche a cui aderiscono in gran parte sono segnali dunque chiari che l’Iran continuerà sul suo attuale percorso politico dopo le elezioni. Per esempio: il nuovo presidente e il suo nuovo esecutivo dovranno subito posizionare il Paese nella grande crisi regionale, con Israele che combatte nella Striscia di Gaza e alcuni gruppi collegati alle Irgc, come Hezbollah, tornate sul piede di guerra. E c’è da immaginarsi che il coinvolgimento indiretto a medio-bassa intensità continuerà. Tutto a riflesso interno: le scelte nella politica regionale e internazionale – con l’allineamento a Mosca e i continui flirt con Pechino – saranno anche oggetto di discussione del movimento antigovernativo, molto attivo anche se le proteste si sono placate dopo la repressione da parte dello Stato.

Il voto avrà anche un effetto nella questione più importante per i prossimi anni del regime teocratico: la successione alla Guida Ali Khamenei. Raisi, sempre per quelle stesse dinamiche che portano la leadership a non prendere rischi, sarebbe stato il nome più papabile: il fatto che è venuto a mancare ha rimesso in discussione anche certi equilibri. Con la continuità e la stabilità che sono le priorità per Teheran, l’obiettivo è dunque cercare la consolidazione del potere piuttosto che la legittimazione di esso da parte delle collettività.

Il punto diventa allora l’affluenza, unico modo con cui quelle collettività che contestano il regime possono dimostrare la loro esistenza nella fase di (non) voto. Nel 2021, l’elezioni di Raisi aveva già subito queste dinamiche, e solo il 48% degli elettorai era andato alle urne. Una percentuale così, o più bassa, potrebbe essere un problema di credibilità, sia internamente, minando il controllo che il potere cerca di esercitare sulle masse, sia esternamente, rappresentando il presidente come debole a livello di consenso. Inserire il riformista Pezeshkian serve anche a questo: evitare che i riformisti spingano per boicottare le urne.

Davanti a tutto ciò si materializza il rischio che – soprattutto con una vittoria di Qalibaf – l’Iran scivoli verso il più temuto dei possibili destini: Teheran dominata sempre più dai conservatori appartenenti alla sfera militare, piuttosto che dall’establishment clericale. Tale processo sarebbe altamente problematico perché chiuderebbe ulteriormente il regime, tagliando anche possibilità per eventuali nuovi dialoghi con Usa e Ue, e spingendo per sviluppi su programmi come quello nucleare e per i piani di influenza portati avanti tramite le milizie collegate.

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