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Grazie all’autorizzazione di Class Editori, pubblichiamo questo articolo di Riccardo Ruggeri uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi

Lo confesso, come studioso di comportamenti organizzativi delle leadership, provo ammirazione verso Sergio Marchionne, lo considero uno dei personaggi più affascinanti nella fauna dei supermanager. Non lo conosco di persona, però lo studio da anni, ci ho scritto un libro, gli dedico molte pagine anche nell’ultimo Fiat, una storia d’amore (finita), Amazon, svariati gli articoli sulle sue gesta che ho scritto.

Ho investito in Fiat Chrysler, addirittura il giorno (29 marzo 2009) dell’annuncio di Barack Obama, certo in modo risibile, stante le mie disponibilità finanziarie, ma non mi sono pentito. Ho sempre tenuto separati i miei comportamenti da investitore dalle mie idee di analista-manager. I primi non mi appartengono, sono legati al mercato, mio compito è cavalcarlo, non condividerlo (conta solo il profitto). Le seconde sono orientate al lungo periodo, da analista voglio capire come finirà il caso Fca, anche per i suoi risvolti per me sentimentali.

Per anni ho giudicato Marchionne secondo le categorie del management classico, giudizi rispettosi ma critici, prigioniero della mia esperienza di manager «datato» (il capitalismo d’antan), mentre, come investitore, ero molto soddisfatto delle performance. Solo nel 2012, all’annuncio del mirabolante progetto «Fabbrica Italia», capii, l’uomo era una versione originale del leader 2.0, che, oltre che nel business, troviamo in politica, nell’arte contemporanea, persino nei celeberrimi chef. I suoi piani strategici, uno all’anno (sic!), che altro erano, se non, estremizzando, momenti di comunicazione? Nel mio libro racconto l’ipnosi, collettiva e singola, di parte dei nostri politici, sindacalisti, intellettuali, a fronte alle sue gesta. Anche grazie a lui, l’Italia è entrata nel «ceo-capitalism».

L’unico piano strategico di Marchionne a cui fare riferimento è quello di un anno fa, propedeutico per Wall Street, presentato nel tempio di Auburn Hills (Detroit), una maratona di 11 ore e 18 minuti ove i manager Fca, sotto la regia di un pimpante-commosso Sergio, hanno bombardato gli analisti di parole, numeri, grafici, slide. Un piano strategico consta sempre di due parti, le assumption e l’execution, quest’ultimo è figlio delle prime, se sono corrette lo saranno pure i risultati, in caso contrario è spazzatura. Sono passati 12 mesi, allora il titolo valeva 9, nel frattempo Fca è stata quotata a Wall Street, il mercato è cresciuto impetuosamente, si è parlato tanto di Ferrari, Marchionne ha comunicato il suo «scorporo», il mercato è impazzito, il prezzo è schizzato a 16, quota 20 pareva lì. I suoi fan nostrani da mesi sono in perenne orgasmo.

Nei giorni scorsi, il grande «seduttore», ha parlato, a Goiana, nello Stato brasiliano del Pernambuco. Qua, anche attraverso la conference call, c’era la crema degli analisti mondiali. È stato fantastico, mi è parso il mitico Juninho (detto il «pernambucano»), quando tirava la «maledetta», la magica punizione che si insaccava sempre nel sette, spiazzando sempre il portiere. Marchionne ha spiazzato tutti noi analisti, oltre che Ceo si è disvelato Profeta. Come i supermanager di Silicon Valley.

Ha fornito i dati del trimestre, ricavi e utile in crescita, conferma dei target 2015. Però, appena si esce dal confronto anno su anno di Fca (positivo), e si passa al confronto della sua redditività con i concorrenti, i numeri impallidiscono. Per esempio, il rapporto fatturato/utili (miliardi di dollari) di Fca rispetto ai due americani è imbarazzante: GM 35,7/0,900, Ford 31/0,924, FCA 26,4/0,092. Marymann Keller dice «con un mercato che tira, dovrebbe fare soldi a palate, invece Sergio è nel panico, certo le vendite sono in crescita, ma i margini calano paurosamente». Altri analisti, fra i quali l’eccellente Carblogger, sottolineano come nel trimestre abbia bruciato cassa per 1 mld, la dipendenza, sia dal mercato americano sia da pochi modelli, è ancora aumentata (60% dei ricavi, 75% del margine operativo), l’utile netto è lontanissimo dalla guidance 2015 (oltre 1 mld), il Sudamerica appare critico, per mantenere le quote il margine è negativo (- 4,2%), e in questo scenario pesante, il dollaro ha ripreso a salire. Ora, il titolo ondeggia sui 13 .

Attendo comunque l’autunno per dare un giudizio sul primo anno del piano 2015-2018 che, oltretutto, nelle assumption non aveva certo ipotizzato una così impetuosa crescita del mercato, specie americano.

A Goiana Marchionne si è fatto Profeta. Ha proiettato 26 slide, dal titolo chilometrico «Confessions of a Capital Junkie. An insider perspective on the cure for the industry’s value-destroying addiction to capital»: ben 19 parole, come il Teorema di Pitagora, un terzo del Padre Nostro. Confesso di essere stato spiazzato, ha parlato da consulente. Perché, proprio nel momento in cui inaugurava un nuovo impianto, è tornato sulla necessità che tutti i costruttori di auto abbattano volontariamente le proprie capacità produttive? Perché vuole addirittura costringere i suoi competitor a cambiare modello di business, per procedere a un consolidamento fra di loro? Eppure li conosce uno per uno, sulle capacità produttive gli hanno già risposto, ironicamente, «grazie no», sulle fusioni non ci sentono. Ovvio, sono interessati alla razionalizzazione del mercato, ma vogliono che i più deboli muoiano, per raccattarli a zero. Così è avvenuto, lo confermo, negli anni ’80-’90 per il grande consolidamento delle macchine agricole: una sfilza di morti, alla fine siamo rimasti due leader mondiali, più qualche robusto cespuglio.

Costoro non hanno nulla in comune con i politici, i sindacalisti, i media italiani che ascoltano rapiti qualsiasi sua narrazione. I Ceo dell’Auto mondiale sono, con i banchieri d’affari e i felpati californiani di internet, gli esemplari più alti nella gerarchia di quello che chiamo ceo-capitalism, che nulla ha a che fare col capitalismo classico. In proposito, Marchionne dovrebbe ricordare l’insuperabile sintesi della Lex Column del Financial Times: “Scegliere fra i costruttori di auto è spesso come scegliere il cane con meno pulci».

In conclusione, mi chiedo, perché questa insistenza sulle fusioni, modo elegante per dire che vuole vendere? Possibile che un raffinato negoziatore come Marchionne faccia l’errore di offrirsi? Tenderei a escluderlo, circondato com’è dal fior fiore delle banche d’affari, e poi non è da lui confondere gli analisti, come sta facendo con tali dichiarazioni. Restano due ipotesi:

a) che abbia già negoziato una way out;

b) che, dopo un anno, si sia reso conto come il piano 2015-18 fosse basato su assumption non realistiche, e si prepari a una narrazione nuova, per non dire di aver toppato?

Indico quest’ultima ipotesi per dovere di analisi, ma non ci posso, e voglio credere, sarebbe la fine di un mito del ceo-capitalism.

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