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Non dipende da noi – Così si autoassolve questo Paese incapace di gestire qualunque emergenza.
L’incendio a Fiumicino, nel suo imprevedibile accadere, ha mostrato, semmai ce ne fosse ancora bisogno, l’incapacità del sistema-paese nel fronteggiare un’emergenza. Un paese che non ha né forza, né tenacia. Che manca di quel connettivo logistico che permetterebbe, alla bisogna, un qualsiasi piano B.
Ai banchi transiti Alitalia, stamattina, spiriti, resi eterei dalla fatica dei viaggi che li hanno portati a Roma, si ammassano, come di fronte lo Stige, nella speranza di trovare un Caronte per l’inferno. E invece, dopo una fila interminabile sperando in un priority in the sky, al posto di Caronte, trovano un bel viso dentro la divisa verde della compagnia di bandiera che anziché assumersi responsabilità si limita a ripetere: – Non dipende da noi -. E per carità, sarà pur vero che, di fronte a un evento straordinario, non ci si possa accanire con il vettore che non ha varchi sufficienti per far imbarcare tutti i passeggeri dall’aerostazione monca di un terminal. Quello che non si capisce, però è perché i passeggeri vengono fatti partire dalle città di provenienza anche quando hanno coincidenze da Roma per altre destinazioni che si sanno, già, cancellate. Non si capisce perché Alitalia, che il giorno prima ti avvisa via email se il tuo volo arriverà a destinazione con 5 minuti di anticipo, non può avvisarti che il tuo volo a destinazione potrebbe non portarti proprio.
E come se non bastasse, tutto questo accade nell’epoca Renziana. L’epoca benedetta dai canoni di velocità e semplificazione.
Che poi, per dirla in parole difficili, quelle dei dottori in economia, un imprevisto come quello di Fiumicino è cosa regressiva. Che, tradotto in parole semplici, vuole dire che s’inchiappetta chi sta peggio. Infatti, quando il mio conterraneo con signora, giunto a Roma da Catania stamattina alle 8 per prendere la coincidenza che l’avrebbe portato dal figlio lauriato in Gemmania, scopre che a Francofotte non ci può più andare, che il primo volo potrebbe essere, forse, lunedì e che nel caso non fosse capace di trovare una sistemazione a Roma e decidesse di tornare a Catania, potrebbe al massimo chiedere il rimborso dei biglietti, lui, il mio conterraneo, con l’eleganza umile e contadina, quasi in lacrime alla moglie Concettina d’ordinanza, povera e spaesata, deve dire :- Turnamo a casa -. A loro spese, ovviamente.
Chi ha, invece, qualche mezzo in più, fortunato dunque nel disagio mal gestito, prende e si affida alle Ferrovie. Così ho fatto io. Ma logicamente un biglietto su di un Frecciarossa per il Nord, in un tale caos, è merce rarissima. E così non rimane che un posto in Executive a 200 Euro. Un incendio a un terminal – d’accordo, dell’aeroporto più grande d’Italia – è a conti fatti, quasi una manovra di governo per i malcapitati viaggiatori.

E i disagi certo non finiscono perché da Fiumicino a Termini qualche treno è cancellato, probabilmente per questione di solidarietà.
A Termini, poi, dal binario dove attracca Leonardo, ai binari dei Frecciarossa è tutta una gincana tra pareti temporanee che trasformano in un budello la testata della stazione dove una folla di umori si accalca sotto i tabelloni che vomitano ritardi e annunci.
– I treni da e per Torino, Milano, Bologna, Verona e Ancona potranno subire ritardi fino a 40 minuti -. Ecco. Sembra di averla fatta nell’acquasantiera.

Una volta a bordo, il problema di viaggiare in Executive, badate bene, non è il prezzo. E’ quello di scoprire uno spaccato sociale assai elitario e bizzarro che sarebbe meglio che il cittadino medio non conoscesse mai. Le carrozze executive sono pagate dai contribuenti. Chi ci viaggia hanno, tutti, biglietti pagati da qualche ente superiore. E statene certi, nessuno tra i presenti se dovesse tirarli fuori da solo spenderebbe quei piccioli. Così ho fatto notare al controllore – Questo biglietto bonifico è, non giroconto – .
Funzionari di Federazioni sportive, dirigenti Rai. Basta che sia pantalone a pagare. Il bello è che quando salgono, anche se sono usi a quelle carrozze così larghe, vuote e comode, questi fortunati Cesari Augusti sono spaesati come il mio conterraneo con la povera Concettina ai banchi transiti. Non trovano il posto perché non sanno dove leggere il numero sulla poltrona. Non sanno reclinare il sedile. Non sanno tirare fuori il tavolinetto. Insomma possono ma non sanno. E in questo loro muoversi e agitarsi, mentre armeggiano tra fili e cavi dell’immancabile i-phone – la tecnologia per gli ignoranti di successo, pardon la tecnologia di successo per ignoranti – , svelano un abbigliamento che è quello delle firme che hanno gli showroom dentro gli aeroporti. E sembrano somigliarsi tutti questi personaggi. Si danno tante di quelle arie che perfino alla carrozza viene la gastrite. E, in effetti, ci vorrebbe un pirito per sgonfiare il tutto e tornare con i piedi per terra. Per evitare di fare di Mennea un Pavarotti.
Mentre scrivo, uno di questi personaggi è al telefono ininterrottamente dalla partenza da Termini e sta parlando con una serie di suoi sottoposti. Al primo ha chiesto di studiare come fare per riportare in Rai il pubblico colto che è scappato su La 7. A un altro ha chiesto di trovare giovani capaci di scrivere 40 cartelle al giorno perché ha in mente di preparare un feuilleton sul Potere attraverso il racconto delle vicende romanzate di quattro famiglie italiane: Agnelli, Gardini e le altre due i cui nomi se li è mangiati una galleria.
La donna che lo accompagna, intanto, riceve una telefonata da Aldo. Aldo che intervisterà Petrini a Dogliani. E subito dopo quella di Amedeo che stasera sarà a cena con la Ferilli e De Sica.
Per fortuna, di fianco, il bimbo di appena un anno, di una coppia di giovani, ha appena fatto la cacca. Proprio quello che ci voleva. Non dipende da noi, ormai. Ma da lui che ha già capito dove è nato.

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