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Il collasso della Libia è una minaccia alla sicurezza dell’Italia, la più grave da quando Gheddafi sparò (goffamente, per la verità) il missile su Lampedusa. Una minaccia indiretta per l’onda dei profughi che sarà impossibile respingere, ma anche gestire; una minaccia diretta perché gli uomini che fanno capo all’Isis hanno detto che vogliono portare l’attacco a Roma. Dunque, non si può non rispondere e bene ha fatto il governo Renzi a non tirarsi indietro annunciando di essere pronto a combattere.

Già da parecchio tempo Matteo Renzi parla del pericolo libico, e molti hanno ironizzato, ma evidentemente era ben informato, molto meglio dei suoi vocianti critici. Del resto i giornali hanno scritto di contatti presi a Washington con il Dipartimento di Stato (si è mosso anche Descalzi, l’ad dell’Eni che è ancora in Libia e conosce come pochi il terreno) e a New York con l’Onu. Dunque, la caduta di Sirte non ha colto il governo di sorpresa. Ma che cosa si può fare in concreto?

Il ministro Paolo Gentiloni promosso “crociato”, parla di una iniziativa Onu con un corpo di spedizione che l’Italia è pronta a guidare. Ma qual è l’obiettivo (perché la guerra è la politica condotta con altri mezzi a meno di non essere un jihadista o un nazista)? La risposta a questa domanda non c’è. Due anni fa poteva essere riunificare la Libia. Un anno fa bloccare l’Espansione del Califfato. Ma adesso che gli uomini neri controllano una grossa parte del Paese, si tratta di batterli sul campo e riconquistare le città perdute. L’Onu è pronta? E l’Italia?

Ammettiamo di sì e che dopo una campagna terribile, sanguinosa, i jihadisti si ritirino. Ebbene, sappiamo chi riempirà il vuoto? Quale forza politica con quale esercito? O sarà una delle tribù in conflitto con le altre? E quale nuova Libia dovrà sorgere?

L’errore capitale della operazione franco-inglese non è stata detronizzare Gheddafi (lasciarlo linciare questo sì ì stato un crimine sciocco) ma non avere idea di come e con chi sostituirlo. Oggi è persino peggio. Dunque occorre definire l’obiettivo di più lungo periodo e poi mettere a fuoco gli strumenti per raggiungerlo.

Intanto un intervento massiccio potrebbe essere fatto lungo le coste libiche per arginare la catastrofe umanitaria, insieme ad altri Paesi, come la Tunisia, l’Algeria e l’Egitto. Poi si dovrebbe calare una cortina di ferro e di fuoco che isoli la Libia tagliando il cordone che collega i jihadisti libici a quelli egiziani, algerini, siriani e irakeni.

E’ ancora possibile frantumare il Califfato se tutti i governi si impegnano a farlo. A quel punto è possibile schiacciare la testa del serpente tra Siria e Iraq saldando e sostenendo i combattenti curdi e quelli sunniti ex saddamiti. Certo, li guida Ezzar al Duri, braccio destro di Saddam Hussein, l’asso di fiori del famoso mazzo americano, che chiede un riconoscimento ex post. Gli Stati Uniti dovranno ingoiare il rospo, non è il primo, e comunque il fine giustifica questa volta i mezzi.

Bloccare la conquista della Libia, porta del Mediterraneo, è una operazione complessa, a vasto raggio. E’ chiaro che un qualsiasi intervento ha bisogno di un sostegno locale e di una coalizione che serva da cuscinetto. Ma essa ha senso se fa parte di un progetto politico più grande che coinvolga non solo gli europei (a cominciare da francesi e inglesi che hanno combinato il pasticcio agendo in modo avventuristico senza un piano di medio termine) ma anche gli americani e i sauditi.

Difficile che una campagna politico-militare di questa portata ottenga il mandato dell’Onu e che possa guidarla l’Italia. Ma il governo Renzi potrebbe farsene promotore e svolgere un ruolo importante.

Che cosa si può (e si deve) fare in Libia

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