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“I leader hanno concordato di rilanciare il dialogo interpersonale di alto livello nel 2024”. Il vertice Ue-Cina è stato all’altezza delle basse aspettative: se Ursula von der Leyen e Charles Michel (rispettivamente presidente di Commissione e Consiglio dell’Ue) escono dall’incontro con il leader cinese Xi Jinping con la rassicurazione di “un dialogo interpersonale” siamo al de minimis, al “buongiorno e buonasera” come si suol dire. Non c’è stato lo “scenario Anchorage” che temeva il Merics, ma è stato confermato lo scetticismo riguardo a risultati concreti. Sicurezza, commercio e clima sono sempre più intrecciati, Bruxelles e Pechino sempre più consapevoli delle differenze e pronte a consolidare le rispettive posizioni, spiegavano gli esperti dell’Ecfr.

Anche se poi l’atteggiamento dei singoli Paesi membri potrebbe essere diverso e ben più aperto a scambi economici (e politici?) con la Cina, mentre si complica di nuovo il piano Ue-Mercosur, che non è indipendente dalle questioni commerciali Bruxelles-Pechino. Ma stavolta non è detto ci siano grosse differenze di compatimento, perché il tema del de-risking sta diventando dominante (nei giorni scorsi lo ha spiegato chiaro e tondo la segretaria al Commercio Usa, Gina Raimondo). Per esempio, l’Italia è stata coerente con la posizione di Bruxelles.

Pochi giorni fa, il governo italiano ha ufficialmente rinunciato a rinnovare il memorandum d’intesa per l’adesione alla Belt & Road Initiative (Bri). Roma sarà fuori dall’infrastruttura geopolitica che fa da faro alle iniziative pratiche della strategia globale di Xi. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni è stata coerente, come ha ricordato il senatore Giulio Terzi su Formiche, con un’importante promessa elettorale. La notizia lanciata dal CorSera è stata ripresa abbondantemente nel mondo, ma senza eccessivi clamori. È probabilmente parte dell’intesa la volontà di non enfatizzare la scelta, per evitare un eccessivo imbarazzo al governo cinese — che perde un pezzo dorato nel pur ampissimo club di adesori alla Bri. L’Italia resta tuttavia legata alla Cina dall’importante strategic partnership, di cui nel 2024 saranno adeguatamente festeggiati i vent’anni dal lancio (sotto il governo Berlusconi). Pechino non si pronuncia, per ora. “Ho più paura dei silenzi che delle urla”, commenta uno studioso di Cina che preferisce evitare la citazione perché il suo commento è tutt’altro che scientifico.

“Direi che forse un collegamento tra la scelta italiana e quella europea è quella di una messa in operazione del de-risking, soprattutto per quanto concerne l’eccessiva dipendenza in alcuni settori dell’economia nazionale e dell’Unione dalle importazioni cinesi”, spiega Giulia Sciorati, Fellow in “China and the Global South” al Department of International Relations della London School of Economics.

Secondo Sciorati, a livello europeo questa volontà di mettere già in pratica gli estremi del de-risking lo si vede per esempio nell’intervento riguardo la sovra capacità manifatturiera cinese e il rischio di un sovraccarico dei mercati dell’Unione. “Penso che un punto importante, però, sia anche quello che concerne la questione dello status, che si discosta da considerazioni di politica economica internazionale e investe questioni più radicate sul ruolo della Cina nel mondo”.

“L’uscita dell’Italia dal MoU — continua — è sicuramente un grave problema di status per Pechino che, dal 2019, ha accompagnato parte del discorso sulla legittimazione della Bri attraverso la formula della presenza dell’Italia quale membro del G7. Sebbene questo intacchi soprattutto le relazioni bilaterali, è sicuramente un elemento da tenere in considerazione per comprendere quelle che potrebbero essere le risposte cinesi al mancato rinnovo”.

“Penso che dovremmo […] migliorare la nostra cooperazione con la Cina sul commercio, l’economia”, ha detto Meloni ai giornalisti nei suoi primi commenti pubblici sulla questione da quando l’Italia ha informato la Cina dell’addio alla Bri. “Lo strumento […] non ha prodotto i risultati che ci si aspettava”, ha aggiunto. “La Cina si oppone fermamente alla diffamazione che danneggia la cooperazione sulla Belt and Road”, ha detto il portavoce del ministero degli Esteri ai giornalisti durante il briefing di routine nei giorni scorsi. Niente approfondimento, per ora, sull’Italia. Nella stessa conferenza stampa, anzi, il portavoce ha anche sottolineato come nei primi tre giorni da quando la Cina ha introdotto l’ingresso senza visto per i cittadini di Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Spagna e Malesia, il 1° dicembre, “i viaggiatori in entrata da questi paesi hanno registrato un aumento medio giornaliero del 39% rispetto al 30 novembre”. Un modo per evidenziare che la Cina non solo è aperta, ma anche attraente.

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