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L’Europa vive davvero una crisi di identità. Le stesse persone che hanno decantato le virtù taumaturgiche del Quantitative Easing della Bce una settimana fa, oggi gioiscono per la vittoria di Syriza in Grecia. Il piano di Draghi punta a rinforzare i bilanci delle banche e ad aiutare i Paesi indebitati, il manifesto di Salonicco di Alexis Tsipras, sotto sotto pensa al ripudio del debito. Francoforte, con tutti i suoi limiti, vuole mantenere in piedi lo status quo dell’Unione fatto di regole, decimali e diktat tedeschi; Atene punta a sollecitare una ribellione contro i vincoli di bilancio e la scintilla sta accendendo gli animi in partiti molto diversi in Europa, da Podemos in Spagna, alla Lega in Italia, per finire con il Front National in Francia. Il rischio è che si arrivi ad un rompete le righe dove solo l’euro resterà irreversibile.

Per questo serve una scelta di campo: o si sta con gli euroburocrati, guidati dalla migliore figura di europeista sulla scena dopo Kohl e Mitterand, il nostro concittadino che ha studiato non per nulla dai gesuiti l’arte del compromesso e della convinzione, oppure si passa con chi, come il quarantenne greco, decide giorno per giorno dove guidare la sua squadra. Illudersi che si possa convivere in questi due standard, ascoltare le sirene dei tifosi dell’uno o dell’altro, generebbe pericolose illusioni che alla fine faranno schiantare la nave Europa sugli scogli della realtà. Che vanno individuati nei due campi.

Il piano da oltre 1.000 miliardi di euro di riacquisto di bond sovrani lanciato giovedì 22 gennaio dall’Eurotower per ora ha generato solo l’inflazione dei commenti e ridotto il valore dell’euro sul dollaro. Tra molti peana e qualche critica, si individuano tre pecche nell’azione promossa da Mario Draghi, che ha comunque raggiunto il miglior risultato possibile: il QE di fatto ripulisce i bilanci delle banche ma non aiuta quelli delle imprese, rischia di finanziare paradossalmente nuovo debito senza trovare una soluzione per ridurlo, mostra una sfiducia politica immensa nell’Unione, perché accolla l’80% delle garanzie per gli acquisti dei titoli di Stato da parte delle banche centrali nazionali sulle spalle delle medesime. Volendo usare una metafora da economia reale, è la stessa differenza che passa tra comprare dal concessionario un’auto nuova o un’auto usata: nel secondo caso, non si alimenta il fatturato dell’azienda automobilistica di cui si acquista il modello ma si rimborsa il privato che è stato il proprietario precedente e si versano commissioni all’intermediario. Non intervenendo sul mercato primario dei titoli di Stato (il concessionario di vetture nuove) ma su quello secondario di titoli già emessi e comprati da altri (il rivenditore di seconda mano) la Banca centrale europea non finanzia quindi direttamente l’economia degli Stati, comprando i loro titoli di debito al momento dell’emissione, ma alimenta solo il circuito finanziario composto dalla triade istituti di credito-banche centrali-ministeri del tesoro. E’ un po’ come sperare che la pallina del flipper esca dal vetro e si trasformi in una da golf. Possibile ma non probabile.

Passando alla Grecia, al netto dei facili entusiasmi suscitati dalla vittoria di Alexis Tsipras alle elezioni – contradditoria per la cinica alleanza di Syriza con la destra anti-europeista – c’è da sperare che il volitivo quarantenne, già diventato il guru di una sinistra europea allo sbando, rimanga scravattato per sempre. Ha detto che indosserà il capo di abbigliamento solo quando verrà cancellato il debito ellenico, un’ipotesi catastrofica, perché a perderci sarebbero tutti quei paesi che proprio dal QE di Francoforte si attendono un giovamento. L’intera Eurozona vanta infatti crediti verso Atene per circa 195 miliardi di euro, tra prestiti bilaterali (due targati Roma), fondi elargiti attraverso l’Esm, il Meccanismo comunitario di salvataggio, la Bce e il Fmi. Secondo i calcoli di Bloomberg, l’Italia è esposta verso la Grecia per circa 40 miliardi di euro, terza dopo la Germania (60 miliardi) e la Francia (46 miliardi): i 322 miliardi di debiti della Grecia, secondo i dati del Ministero delle Finanze greco resi pubblici alla fine del terzo trimestre 2014, sono solo per il 17% in capo a soggetti privati e questo spiega la relativa calma dei mercati. Il 62% di questa voragine debitoria è dunque in capo ai governi europei, il 10% al Fondo monetario internazionale e l’8% alla Banca centrale europea, mentre il restante 3% è custodito dalla Banca centrale greca. Dietro l’Italia si colloca la Spagna con circa 26 miliardi, seguita dall’Olanda con circa 12 miliardi di euro. Un ripudio del debito con conseguente default, creerebbe non pochi problemi a tutti i governi, anche alla luce delle regole del Quantitative Easing che, per diktat di Berlino, ha scaricato gran parte degli oneri di eventuali bailout sui bilanci nazionali e non sull’Eurotower.

Le banche, invece, sono quasi al riparo. Un’eventuale ristrutturazione del debito greco – su cui la Germania non ha chiuso la porta, anzi, forse ha fatto qualche promessa segreta – avrebbe oggi un effetto limitato sulle grandi banche tedesche e francesi, che erano invece le più esposte nel 2010, quando è esplosa la crisi di Atene. Gli istituti tedeschi e francesi avevano prestiti in essere in Grecia per 120 miliardi di dollari nel 2009, mentre a metà 2014 erano di poco superiori ai 15 miliardi, secondo i dati Bri (che non includono i prestiti delle banche pubbliche come la tedesca Kfw, che oggi ha crediti verso Atene per circa 15 miliardi di euro), mentre quelle italiane sono esposte per 1,2 miliardi di euro.

La conseguenza di un’eventuale revisione dell’enorme debito pubblico greco (pari ad oltre 175% del Pil) finirebbe per impattare sugli Stati e quindi sui contribuenti, coinvolgendo in primo luogo il Moby Dick dei debitori nel mondo: l’Italia. Nel 2010, rischiavano di fallire le banche, oggi rischierebbero di fallire gli Stati. Molto meglio quindi, cominciare a discutere finalmente della condivisione del debito tra tutti i paesi dell’Eurozona con emissione dei dimenticati eurobond, piuttosto che ascoltare le sirene di chi vuole smontare l’architettura comunitaria in modo disordinato e pericoloso.

Parafrasando Eraclito, solo l’euro sta dimostrando di essere irreversibile. L’Unione, con le sue conquiste di pace e solidarietà, non è affatto al sicuro.

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