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Tra un mese terminerà – senza onore né gloria – il semestre di presidenza italiana della Ue. E’ difficile sostenere che sia stata un’occasione utile per il nostro Paese. Le circostanze non erano favorevoli per imprimere una svolta nella politica comunitaria: non solo per gli effetti disgreganti che la crisi ha determinato e continua a produrre (anche se le forze contrarie all’Unione e all’euro si sono rivelate, nelle elezioni per il Parlamento europeo della primavera scorsa, più delle iene che delle tigri); quanto piuttosto per le discontinuità che hanno interessato le principali istituzioni europee.

Renzi, così, ha dovuto interagire, dapprima, con una Commissione in scadenza, poi con una ancora in rodaggio. Ma “mentiremmo per la gola” se non volessimo ammettere che, al premier-segretario, di svolgere il ruolo a cui era stato chiamato non gliene è potuto fregar di meno. E’ la vecchia favola della volpe e dell’uva, che diventa acerba soltanto perché l’animale non riesce a raggiungerne i grappoli.

Per essere il leader del Vecchio Continente non basta prendere più voti degli altri; bisogna averne le capacità. Con la sua arroganza (come si può definire altrimenti l’aver voluto imporre a tutti i costi Federica Mogherini?) il premier-ragazzino è riuscito ad alienarsi ben presto le simpatie che aveva suscitato all’inizio e l’interesse con cui era stato accolto il suo clamoroso exploit nella consultazione elettorale.

Al dunque Renzi è diventato una macchietta. Un po’ come Silvio Berlusconi, che esibiva le corna nelle foto di gruppo, faceva “cucù” ad Angela Merkel, spiegava al povero Zapatero di “non aver mai pagato una donna” (ed era sincero perché “una” stava per “una sola alla volta” essendo l’ex Cav un grossista del gentil sesso), era sempre pronto a raccontare l’ultima barzelletta. Renzi, con il suo inglese maccheronico, il suo abito da tranviere, riscuote più o meno la stessa attenzione riservata al ragazzo del bar che viene a servire le bevande prima che inizino le riunioni. E si permette di insultare (ha fatto bene Juncker a reagire) personalità che, in generale (non è tutto oro quello che luccica anche negli altri Paesi), hanno svolto compiti importanti prima di diventare Commissari dell’Unione.

Eppure, se Matteo Renzi può guardare davanti a sé con una certa sicurezza, lo deve alla Ue, al ‘’burocrate’’ che presiede la Commissione e alla filiera franco-filandese che ne guida la politica economica. ‘’Ho fatto la scelta di non sanzionare l’Italia e la Francia. Sarebbe stato facile – sono parole di Jean-Claude Juncker – punire i Paesi che non rispettano le regole del Patto: bastava applicare le procedure previste. Ma io ho scelto di lasciarli parlare. E di ascoltare’’. Così l’esame finale della legge di stabilità – per merito del ministro Padoan – è stata rinviato a marzo grazie all’apertura di una linea di credito sulle riforme promesse dal Governo.

L’approvazione ormai prossima del Jobs act Poletti 2.0 sta producendo, più o meno, il medesimo effetto che, a suo tempo, venne determinato dalla riforma delle pensioni del ministro Fornero. Al di là dei contenuti – che magari risulteranno, alla fine, più modesti di quanto promesso e di ciò che sarebbe necessario – contano i segnali, sul piano politico e culturale, che un Paese manda di sé. L’aver “superato” il flagello delle pensioni di anzianità (purtroppo un Parlamento di imbelli e di opportunisti ha in corso una sciagurata operazione di recupero), come l’aver messo in discussione l’idea della job property, oggi, sono tutti fattori che restituiscono credibilità al Paese. E pesano anche in termini economici, non solo politici.

Certo la Ue, al pari dei mercati, non si farà prendere per il naso. La scadenza di marzo è indicata apposta per valutare se il Governo sarà di parola nei decreti delegati e nelle altre misure. Ma Renzi, intanto, mette al sicuro, per alcuni mesi, quel tallone d’Achille in cui poteva essere ferito a morte: la manovra di bilancio, appunto. Restiamo convinti, infatti, che nella strategia del “garzoncello scherzoso” non ci sia la prospettiva di tempi lunghi, che l’impegno ad arrivare al 2018 sia una cambiale sottoscritta “a babbo morto”. Renzi deve poter “tirare il fiato”, con il suo esecutivo, per i mesi che lo separano da quando verrà il momento opportuno per andare alle elezioni anticipate. Mentre, per raggiungere quell’obiettivo, l’Unione gli ha sgombrato il campo dall’incubo delle regole di bilancio, le difficoltà stanno sorgendo, all’interno, sul piano politico.

L’iniziativa di Giorgio Napolitano – che lo ha inviato a rallentare la marcia verso la sua “prise du pouvoir” pretendendo da lui che le riforme si facciamo tutte e tutti assieme – potrebbe mettere in crisi il progetto politico renziano. Sempre che Matteo non sia in grado di mandare al Quirinale un nuovo inquilino disposto ad eseguire i suoi ordini.

Tutte le renzate di Renzi

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