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Il settore energetico costituisce uno degli elementi cardine nell’equilibrio globale. La necessità di approvvigionamenti è alla base delle relazioni internazionali, sia in senso politico che economico.

Gli andamenti della domanda e dell’offerta determinano variazioni nei prezzi di alcune fonti che conservano tutt’oggi un’influenza diretta sulle attività economiche tra cui, principalmente, il trasporto e la produzione.

La fonte da cui derivano le maggiori influenze è senza dubbio il petrolio. Dagli anni ’70 due repentini aumenti di prezzo hanno scatenato periodi di depressione e instabilità nei sistemi economici dei paesi occidentali. Oggi, sempre a causa delle relazioni tra domanda e offerta, stiamo assistendo a una riduzione del suo prezzo (35% rispetto al valore di giugno) che avvantaggia le economie dei Paesi importatori, tra cui Giappone, Italia e Germania. Secondo stime del Fondo Monetario Internazionale, tale riduzione determinerà, infatti, un aumento di un punto percentuale del loro Pil.

Dal punto di vista dei paesi esportatori, invece, il calo del prezzo del petrolio costituisce una perdita in termini di utili. Chi maggiormente ne risente sono le economie già duramente colpite da crisi economiche come Venezuela o Iran. Questi ultimi hanno infatti richiesto all’OPEC di ridurre i livelli di produzione per far tornare i prezzi ai livelli precedenti. I paesi membri del Golfo, forti della loro posizione e fiduciosi che un calo del prezzo possa in prospettiva stimolare un rilancio della produzione globale, si sono opposti al rallentamento della produzione che è quindi rimasto stabile: 30 milioni di barili al giorno (Al Jazeera). Non è del tutto escluso che si stia entrando in una vera e propria guerra di prezzo (Bloomberg).

Quali le cause del crollo? Possono essere legate tanto al lato dell’offerta quanto a quello della domanda. Per il FMI si tratta principalmente (80%) di un eccesso di offerta derivante dal miglioramento degli standard di efficienza della fonte e da decisioni dei paesi OPEC. Il resto (20%) dipenderebbe invece dal calo della domanda causato da un rallentamento della crescita. Le percentuali sono più equilibrate secondo gli economisti di JPMorgan Chase, per cui si tratta rispettivamente del 55% e del 40% (The Wall Street Journal).

Ad ogni modo, qualsiasi sia la causa scatenante, è indubbio che poter utilizzare il petrolio a prezzi inferiori alleggerisce i costi di molte attività familiari e produttive. Anche l’amministratore delegato di ENI, Claudio Descalzi, considerando un break even aziendale posto a 45 dollari, vede l’avvenimento come “un’opportunità capace di risvegliare società divenute grasse e svogliate dopo anni di petrolio a 100 dollari” (Agi).

Fatih Birol, capo economista dell’Aie, in occasione della presentazione del World Energy Outlook 2014, ha considerato il calo del prezzo del petrolio un’ottima occasione per rilanciare la produzione, non nascondendo però preoccupazioni legate ad una potenziale ulteriore dipendenza dal Medio Oriente (Presentazione Weo).

Petrolio, ecco quanto guadagneranno i Paesi importatori dal calo del prezzo

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