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Questo articolo è stato pubblicato oggi su La Gazzetta di Parma

E’ encomiabile, dopo decenni di non-decisioni, che Matteo Renzi abbia rivendicato il suo dovere d’assumersi ogni responsabilità e il suo diritto di “fare delle scelte”. Per lungo tempo i nostri presidenti di Consiglio si nascondevano dietro le loro composite e perfino “strane” maggioranze -così fu ribattezzata quella dell’esecutivo Monti-, per giustificare la propria inerzia. Invece il giovane fiorentino ha voluto mettere il naso fin dentro i decreti attuativi della riforma del lavoro. Per dirci: l’autore sono io.

Dato a Renzi quel che è di Renzi, cioè il coraggio di decidere -e molto coraggio gli italiani chiedono al loro governo per uscire dalla crisi-, l’esito di tale e tanta partecipazione non è stato, però, all’altezza dei propositi. Già dal Parlamento era uscita una legge del tipo “vorrei, ma non posso”. Vorrei cambiare radicalmente le regole del sistema nazionale, ma non posso tirare troppo la corda: ecco il senso e il contenuto della molto sbandierata riforma, che alle Camere aveva, per esempio, “superato” con astuzia il famoso articolo 18, senza tuttavia prenderlo di petto con franca azione legislativa. Lasciando presagire che non di svolta, ma di compromesso si sarebbe, alla fine, trattato.

Coi provvedimenti approvati dal Consiglio dei ministri pre-natalizio, quell’anticipazione di un cambiamento di marcia non con la quinta, ma soltanto in prima, è stato confermato. Ed è stato confermato dagli insospettabili protagonisti del tiro alla fune. Da una parte la Cgil e la Uil, sindacati che ora parlano di “regalo agli imprenditori” e di “abominio”, testuali parole di Susanna Camusso. Dall’altra, il Nuovo centrodestra al governo, dal quale si leva la voce dell’esperto in materia, Maurizio Sacconi, con opposte, ma non meno dure parole: “La montagna ha partorito il topolino”.

E allora, se questa “rivoluzione copernicana”, come invece se la canta e se la suona il buon Matteo, riesce a produrre delusioni tanto profonde su entrambi i fronti contrapposti, significa che essa si propone come via di mezzo tra il dire e il fare. La nuova disciplina del contratto a tutele crescenti finisce per rinviare alla magistratura questioni decisive e dalla tipica competenza del potere politico. Fra l’obbligo di reintegro e quello di indennizzo c’è una scala di varianti, di situazioni e di cavilli che rischiano di creare il paradossale effetto di non garantire il lavoratore com’è stato fino a oggi garantito. Né di assicurare all’imprenditore la libertà, finora negata, di poter assumere, valorizzare o licenziare sulla base del lavoro svolto e della condizione economica nel Paese.

Il cosiddetto jobs act, com’è stato denominato con comico provincialismo, si presenta quale risposta innovativa, ma pasticciata. E il pericolo è che, strada facendo e magistrati inevitabilmente intervenendo, il pasticcio avrà la meglio sulla novità. E poi: come può una nuova disciplina applicarsi nella stessa impresa in due modi tanto diversi (a tutela crescente per i neo-assunti, come prima per tutti gli altri), senza violare il principio di eguaglianza fra padri e figli? Domande che certamente hanno, e avranno, una risposta. Ma prima di magistrati, imprenditori, sindacati e lavoratori, a rispondere con chiarezza doveva essere la politica.

Renzi non è stato troppo renziano sull'articolo 18

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