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Uno scoop di Politico conferma ulteriormente come la guerra israeliana nella Striscia di Gaza stia creando un problema di equilibrio per gli alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente, impegnati a battere il punto in protezione dei palestinesi, a mantenere aperto il canale di dialogo approfondito negli ultimi anni con Israele, a gestire le relazioni con gli americani e a non alterare il piano dei contatti politici/diplomatici/culturali con l’Iran.

Politico ha ottenuto informazioni su come alcuni dei Paesi che ospitano basi statunitensi in Medio Oriente starebbero chiedendo a Washington restrizioni di utilizzo. Nella sostanza, vogliono evitare di sembrare troppo disponibili alle ritorsioni statunitensi contro l’Asse della Resistenza, ossia il network articolato di milizie connesse ai Pasdaran che si è mobilitato nell’intera regione dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre. Gesto estremo che ha provocato quella che il ministro degli Esteri italiano, il vicepremier Antonio Tajani, ha recentemente definito una “reazione sproporzionata” di Israele.

I Paesi mediorientali non solo condividono questa lettura della situazione — su cui anche Washington sta deviando, pur mantenendo una linea generale di protezione israeliana. Quelle nazioni vogliono evitare che l’ospitare basi statunitensi finisca per farle sembrare schierate, innanzitutto agli occhi di una popolazione riluttante al sostegno a Israele (e all’Occidente americano-centrico tout court). Poi vogliono evitare che Teheran le consideri in qualche modo partecipanti agli attacchi condotti dagli americani contro le milizie filo-iraniane regionali. Attacchi che Washington definisce legittimamente di “autodifesa”, dato che sono le milizie ad aver agito per prime in almeno 170 occasioni dal 7 ottobre ad oggi, e in altre dozzine nell’ultimo decennio – e a questi vanno aggiunti 46 condotti dagli Houthi, con armi iraniane, lungo le rotte indo-mediterranee.

Da qui: secondo un altro scoop interessante pubblicato da un altro media statunitense in questi giorni, NBC News, gli Usa avrebbero condotto un attacco cyber attacco contro la Behshad, nave spia che l’Iran aveva piazzato all’imbocco del Mar Rosso, appena dopo Bab el Mandela, e che avrebbe fornito informazioni di intelligence agli Houthi. Si tratterebbe del primo attacco diretto contro Teheran da parte di Washington, che considera i Pasdaran colpevoli degli attacchi subiti dalle milizie che coordinano – sebbene esse abbiano ormai acquisito una certa capacità di indipendenza.

La posizione è in linea con alcune attività che Paesi come per esempio gli Emirati Arabi Uniti – tra coloro che avrebbero chiesto accortezze sull’uso delle loro basi agli Stati Uniti – conducono da anni. Abu Dhabi, stretto alleato americano al punto di essere il più importante firmatario degli Accordi di Abramo, cova da anni dubbi anche sul procedere della guerra in Yemen, dove sollecita una soluzione negoziale abbinata al riavvio (primo tra gli altri del Golfo, non senza preoccupazioni a Washington) delle relazioni con il regime siriano e con l’Iran. Lo stesso vale per il Qatar e per Kuwait e Oman.

L’Arabia Saudita, custode dei luoghi sacri e spesso chiamata in causa per il processo di normalizzazione con Israele in corso, fa altrettanto. Dopo aver riavviato le relazioni con l’Iran grazie alla mediazione opportunistica cinese, i dialoghi di sicurezza tra ministeri della Difesa e militari stanno vivendo una particolare vivacità (per esempio, una delegazione iraniana ha partecipato al Riad Defense Show la scorsa settimana e comunicazioni alto livello sono in corso da mesi).

Riad, Abu Dhabi, Doha, Teheran stano lavorando sui principi di non aggressione, come spiegava Abolrasool Divsallar sul Middle East Institute a settembre scorso. In generale, ora si cerca una distensione strategica che i grandi attori della regione identificano come prioritaria per gli interessi a lungo termine. Ed è probabile che nell’ottica di multi-allineamento, questa distensione venga percepita come volontà autonoma e indipendente che forze esterne non devono alterare.

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