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Il caso – solo il caso? – ha voluto che Luciano Violante decidesse di annunciare alle “signore e signori del Parlamento” la sua rinuncia alla contrastata candidatura a giudice costituzionale in coincidenza con la testimonianza di Giorgio Napolitano alla Corte d’Assise di Palermo sulla presunta trattativa di una ventina d’anni, nella stagione delle stragi di mafia, fra pezzi dello Stato e di Cosa Nostra. E ancor più in coincidenza con il tentativo maldestro degli inquirenti palermitani, più volte criticati da Violante proprio su questo tema, di trovare nelle parole del capo dello Stato una conferma del loro cosiddetto impianto accusatorio. Una conferma che invece non c’è stata per niente.

Lasciatisi avvicinare dai giornalisti dopo la deposizione di Napolitano, per bocca di Vittorio Teresi, almeno per quanto riportato tra virgolette sul Corriere della Sera da Giovanni Bianconi, gli inquirenti hanno espresso la loro soddisfazione per avere ottenuto al Quirinale la conferma del “ricatto” mafioso allo Stato costituito dalle stragi del 1992 e 1993. Ma nessuno ha mai dubitato di questo “ricatto”, cioè della volontà della mafia di piegare con il sangue ai loro interessi e ai loro obbiettivi le istituzioni.

Il problema portato dagli inquirenti al processo è un altro, per niente suffragato dalla testimonianza di Napolitano, e contestato da Violante giù durante le indagini preliminari, quando lo stesso Violante fu interrogato per il lavoro svolto come presidente della commissione parlamentare antimafia proprio durante la stagione delle stragi. Il teorema degli inquirenti è che i mafiosi fossero riusciti nel loro intento, con la complicità di pezzi dello Stato, ottenendo concessioni, per esempio, sul trattamento dei detenuti appartenenti a Cosa Nostra.

Questo è il problema del processo, riproposto dagli inquirenti aggrappandosi al “timore” espresso in una lettera del 2012, quasi in punto di morte, dall’allora consigliere giuridico di Napolitano, Loris D’Ambrosio, di potere essere stato al Ministero della Giustizia, dove lavorava nella stagione delle stragi, “ingenuo e utile scriba” per “indicibili accordi”. Ma su questo l’accusa non ha ricavato nulla, proprio nulla, dalla deposizione di Napolitano così ostinatamente e spettacolarmente voluta. Chiedano qualcosa, piuttosto, alla sorella del martire di mafia Giovanni Falcone, Maria, citata dal povero D’Ambrosio nella sua lettera a Napolitano come destinataria di uno “scritto” sul suo “timore” per un libro in cui però non si trovò traccia alcuna.

Consapevole di questa e di tante altre storture delle indagini e del conseguente processo sulla presunta trattativa con la mafia, peraltro capeggiata allora da un boss – Totò Riina- che finì catturato, Violante si è visto stranamente costretto, sia pure con una decisione formalmente volontaria, a rinunciare ad un posto – alla Corte Costituzionale – dove per competenza e autorevolezza avrebbe ben potuto operare per un riequilibrio dei rapporti fra la magistratura e le altre istituzioni.

Violante si è trovato costretto, ripeto, alla rinuncia prima dai voti che a scrutinio segreto gli sono mancati per una ventina di volte nell’aula di Montecitorio anche nel suo partito, e poi dall’invito al ritiro sostanzialmente rivoltogli in televisione dal presidente del Consiglio e segretario del Pd Matteo Renzi per lasciare spazio a un nome sul quale raggiungere un’intesa in Parlamento anche con i grillini. Che intanto hanno già alzato la voce e la posta nella partita alla quale sono stati chiamati dopo il delitto politico (quasi) perfetto subìto da Violante.

I magistrati decisi a non rinunciare alle loro esondazioni, diventate tali e tante da indurre Violante a svoltare rispetto alle sue originarie posizioni in tema di giustizia, ringraziano sentitamente.

Francesco Damato  

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