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Grexit o non Grexit? Questo è il dilemma che divide gli burocrati a Bruxelles, i governi e le opinioni pubbliche europee. Anche in Italia sta crescendo il partito di chi vorrebbe accompagnare alla porta quegli sconsiderati trotzkisti che hanno preso il potere ad Atene.

Un dato di fatto è che la Grecia ha bisogno di un terzo salvataggio e di questo si sta discutendo. I sei mesi di tempo richiesti da Tsipras servono a definire i termini della operazione. Quanto costerà? Più o meno altri 50 miliardi di euro che si aggiungono ai 240 già erogati da Ue, Bce e Fmi. La stima l’ha fatta Peter Spiegel nel suo Brussels blog sul Financial Times, basandosi sulle tabelle ufficiali e supponendo che venga adottato completamente il piano Varoufakis.

Possiamo schematizzare così il conto della spesa:

– Secondo il Fmi mancano attualmente 12,6 miliardi di euro.

– Se scade, come Tsipras ha promesso, il programma della Ue, bisogna aggiungere 1,8 miliardi.

– Il blocco delle privatizzazioni fa mancare altri 8,5 miliardi.

– La riduzione dell’attivo primario (al netto degli interessi) dal 4,5 a 1,5 % di qui al 2017 (ipotesi accettata dalla mediazione di Moscovici che non piace ai tedeschi) equivale a trovare 14,9 miliardi.

– Siamo così a 37,8 miliardi. Se poi il governo greco caccia anche il Fmi, verrebbero a mancare i 16 miliardi ancora da erogare sui 28 che rappresentano la quota del Fondo. In questo modo, la tassa greca salirebbe a 53,8 miliardi.

L’Unione europea è in grado di accollarsela? I tedeschi sarebbero d’accordo? E gli italiani che hanno sborsato 40 miliardi anche se non hanno gli occhi per piangere? Dunque, il braccio di ferro in corso non ha solo motivi ideali o ragioni di principio. Sono in ballo quattrini veri, e non sono certo pochi spiccioli.

Prende quota, così, chi vorrebbe dire basta. Dalla penna di guru della politica e dell’economia escono cose che noi umani non avremmo mai immaginato. Se la Grecia vuole finire in braccio a Putin sarebbe solo un modo di fare chiarezza, sostiene Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, dimenticando cosa è stata la Grecia nel dopoguerra e cosa rappresenta ancor oggi nel fianco sud dell’Europa.

Ma è davvero possibile una uscita programmata dall’euro? Chi opera sul mercato è molto meno ottimista degli economisti accademici. Accordi monetari che si sciolgono senza pesanti costi e gravi sconquassi, sono rari nella storia (e nessuno era così cogente come quello che ha dato vita all’euro). La fine della dollarizzazione in Argentina nel 2002 ha fatto cadere il pil del 15%. La Slovacchia ha perso un quarto del prodotto lordo quando si è separata dall’unione monetaria con la Cecoslovacchia nel 1993. Il crollo dello Sme, il sistema monetario europeo, nel 1992, ha provocato due anni di recessione. La lira italiana è stata svalutata due volte per un totale del 40%.

L’ultimo rapporto di UBS prevede che la metà dei depositi verrebbe ritirata dalle banche greche, in base all’esperienza di altri break-up. La nuova dracma avrebbe un valore inferiore del 60%, dunque quel che resta dei depositi bancari verrebbe convertito a quel tasso. Il volume delle esportazioni potrebbe calare immediatamente del 50% anche perché mancherebbero i fondi per finanziarle. In prospettiva, è vero, la svalutazione monetaria rende più competitive le merci, ma siccome la Grecia importa molto più di quel che vende all’estero, lo squilibrio nella bilancia dei pagamenti costringerebbe ad adottare una politica restrittiva persino peggiore di quella imposta dalla trojka. Non solo: con un deprezzamento valutario del 60% il debito salirebbe al 440% del pil; aggiungendo una caduta del prodotto lordo del 30% in valuta locale, il debito arriverebbe al 600%.

“In altri termini, l’uscita dall’euro provocherebbe un default totale della Grecia e costerebbe agli altri stati membri della zona euro circa il 3% del prodotto lordo della zona euro”, scrivono gli economisti di UBS. Ma attenzione, la Grecia è strettamente intrecciata al resto del continente. Ci sarebbero ripercussioni sul sistema delle banche centrale anche attraverso il Target2, la Bce dovrebbe aumentare il capitale stampando moneta o costringendo i governi a ricorrere ai contribuenti. L’incertezza e il premio al rischio farebbero salire i tassi di mercato, con effetti pressoché immediati sull’economia reale.

Sembra uno scenario fine di mondo. Ma l’esperienza, non solo la teoria, ha insegnato che anche il collasso di una piccola maglia in un punto periferico può far crollare l’intera rete. Abbiamo tutti davanti agli occhi Lehman Brothers nel 2008. Ma i meno giovani ricorderanno che nel 1992 tutto cominciò con la caduta del minuscolo marco finlandese (il markka) sconosciuto ai più. Può darsi che le stime di UBS siano eccessive. Chi ha il fegato di verificarle, non sul computer, ma nella vita reale, scagli le sue frecce.

Stefano Cingolani

Ecco quanti miliardi costeranno all'Europa i piani di Tsipras e Varoufakis

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