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Roma, 18 giugno 2012

Caro Presidente,

i fatti di questi giorni mi hanno profondamente amareggiato personalmente, ma, in via principale, per la consapevolezza che la loro malevola interpretazione sta cercando di spostare sulla Sua figura e sul Suo altissimo ruolo istituzionale condotte che soltanto a me sono invece riferibili.

Come il procuratore di Palermo ha già dichiarato e come sanno anche tutte le autorità giudiziarie a qualsiasi titolo coinvolte nella gestione e nel coordinamento dei vari procedimenti sulle stragi di mafia del 1992 e 1993, non ho mai esercitato pressioni o ingerenze che anche minimamente potessero tendere a favorire il senatore Mancino, o qualsiasi altro rappresentante dello Stato comunque implicato nei processi di Palermo, Caltanisetta e Firenze.

Con quelle autorità giudiziarie mi sono comportato con lo stesso rispetto che, sia in questi anni sia dall’inizio della mia attività professionale, ha ispirato i miei comportamenti con chi è chiamato a esercitare in autonomia e indipendenza le funzioni di magistrato. Qualunque mio collega può esserne testimone.

Quel che, con espresso riguardo ai procedimenti sulle stragi, ho invece sempre ritenuto e poi stigmatizzato in qualunque colloquio è che le criticità e i contrasti sullo svolgimento di quei procedimenti non giovano al buon andamento di indagini che imporrebbero, per la loro complessità, delicatezza e portata, strategie unitarie, convergenti e condivise, oltre che il ripudio di metodi  investigativi non rigorosi, o almeno non sufficientemente rigorosi, nella ricerca delle prove e nella loro verifica di affidabilità; oltre che, ancora, l’abiura di approcci disinvolti non di rado più attenti agli effetti mediatici che alla finalità di giustizia.

Il procuratore generale della Cassazione, il procuratore nazionale antimafia, il Consiglio Superiore della Magistratura, la Commissione parlamentare antimafia sanno bene che le criticità e i contrasti esistono e sono gravi, ma che a essi non si riesce a porre effettivo rimedio. Mi ha turbato leggere nei resoconti di un’audizione all’Antimafia le dichiarazioni di chi ammette che nella cosiddetta trattativa Stato-mafia uffici giudiziari danno interpretazioni diversificate e spesso confliggenti, ma che ciò è fisiologicamente irrimediabile, come se fosse la stessa cosa trattare lo stesso soggetto da imputato o da testimone o parte offesa da fonte attendibile o da pericoloso e interessato depistatore.

A tutto ciò consegue però un effetto perverso. Quello che anche interventi volti a stimolare adeguati coordinamenti finalizzati a raggiungere o consentire univoche verità processuali vengano poi letti come modi obliquamente diretti a favorire l’una o l’altra interpretazione di fatti o situazioni indiziarie o solo sospette su episodi gravissimi della nostra Storia. E, in genere –perché mediaticamente più conveniente- come un modo per impedire che escano “dai cassetti” procedimenti che toccano o lambiscono apparati o rappresentanti istituzionali.

E’ così accaduto che qualche politico o qualche giornalista sia arrivato ad accostare o inserire chi, come me, non accetta schemi o teoremi prestabiliti all’interno di quella zona grigia che fa di tutto per impedire che si raggiungano le verità scomode del “terzo livello” o, per dirla con altre parole, è partecipe di un “patto col diavolo”, non sta dalla parte degli italiani onesti ed è disponibile a fare di tutto per ostacolare un pugno di “pubblici ministeri solitari che cercano la verità sul più turpe affare di Stato della seconda Repubblica: le trattative fra uomini delle istituzioni e uomini della mafia”.

Tutto ciò è inaccettabilmente calunnioso. Ma non mi è difficile immaginare che i prossimi tempi vedranno spuntare accuse ancora più aspre che cercheranno di colpire me per colpire  Lei. Non conosco il contenuto delle conversazioni intercettate, ma quel tanto che finora è stato fatto emergere serve a far capire che d’ora in avanti ogni più innocente espressione sarà interpretata con cattiveria e inquietante malvagità. Ne sarò ancora più amareggiato e sgomento anche perché, come ho detto anche quando sono stato sentito a Palermo come persona informata sui fatti del 1992 e 1993, sono il primo a desiderare che sia fatta luce giudiziaria e storica sulle stragi; perché quei tempi li vissi accanto a Giovanni Falcone poi dedicandomi, assieme a pochi altri, senza sosta a comporre quel sottosistema normativo antimafia che ha minato la forza di Cosa Nostra e di organizzazioni similari.

Lei sa di ciò che ho scritto anche di recente su richiesta di Maria Falcone. E sa che, in queste poche pagine, non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi –solo ipotesi- di cui ho detto anche ad altri, quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi.

Non Le nascondo di aver letto e riletto le audizioni all’Antimafia di protagonisti e comprimari di quel periodo e di aver desiderato di tornare anche io a fare indagini, come mi accadde oltre 30 anni dopo la morte di Mario Amato, ucciso dai terroristi. Ecco, che tutti questi sentimenti siano ignorati per compromettere la mia credibilità e, quel che è peggio, per utilizzare tale compromissione per “volgerla” contro di Lei, non è per me sopportabile. Sono certo che, per come mi ha conosciuto in questi anni e nei dieci anni precedenti, Lei comprende il mio stato d’animo.

A Lei rimetto perciò il prestigioso incarico di cui ha voluto onorarmi, dimostrandomi affetto e stima.

Con devozione e deferenza, suo Loris D’Ambrosio

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Napolitano, si sa, si affrettò a respingere le dimissioni e a confermare piena fiducia al suo consigliere giuridico, che morì ugualmente di crepacuore il 26 luglio, non sopportando la campagna che proseguiva contro di lui per le telefonate avute con l’ex ministro democristiano dell’Interno Nicola Mancino, indagato per falsa testimonianza a Palermo sulla presunta trattativa fra pezzi dello Stato e di Cosa Nostra nella stagione delle stragi di mafia.

Sulla lettera del povero D’Ambrosio, tanto toccante quanto drammatica, per fortuna conosciuta grazie soltanto alla decisione di Giorgio Napolitano di diffonderla, dovrebbero porre ben bene la loro attenzione i giudici togati e popolari della Corte d’Assise di Palermo, chiamati a raccogliere il 28 ottobre nel Palazzo del Quirinale, secondo le procedure della legge, e non per un borioso capriccio dell’interessato, la testimonianza del presidente della Repubblica. Una testimonianza voluta dall’accusa con una ostinazione che potrebbe rivelarsi un’autorete.

Data l’impossibilità, già anticipata inutilmente e per iscritto dal capo dello Stato di fornire chiarimenti sul “vivo timore” espressogli da D’Ambrosio di essere stato considerato “un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi” quando lavorava al Ministero della Giustizia, e vista l’impraticabilità di una cervellotica azione penale contro D’Ambrosio perché morto, della lettera dell’allora consigliere giuridico del presidente della Repubblica resta solo una serrata, implacabile critica ai metodi e ai contenuti delle indagini che hanno portato al processo in corso a Palermo. Indagini contrassegnate da “criticità e contrasti” e poco o per niente coordinate, come avrebbero dovuto invece essere, fra varie procure impegnate sulla stessa materia. Criticità supportate politicamente dalla commissione parlamentare antimafia e manifestatesi con “approcci disinvolti non di rado più attenti agli effetti mediatici che alle finalità di giustizia”. Un giudizio espresso, questo, non da un cronista sprovveduto o da qualche ventriloquo di procura, ma da un magistrato di riconosciuta ed apprezzata esperienza. E tutto questo in una lettera che è la sola cornice nella quale è stata ammessa la testimonianza eccezionale, sotto tutti gli aspetti, del presidente della Repubblica.

Questa cornice non potrà essere certo aggirata dalla provocatoria curiosità stranamente riconosciuta al difensore del boss Totò Riina di sapere dalla viva voce di Napolitano se, in veste di presidente della Camera, fosse stato informato nel 1992 di poter essere pure lui ucciso dalla mafia. Come se una tale consapevolezza avesse potuto automaticamente inserire l’allora presidente di Montecitorio fra gli interessati ad una trattativa dissuasiva con gli stragisti. Una insinuazione come tante altre che distinguono il cosiddetto impianto accusatorio di un processo che sempre di più assomiglia solo ad un film: quello, peraltro di scarso successo, arrivato di recente nelle sale cinematografiche.

Francesco Damato

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