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“La ripresa dell’Eurozona è sostanzialmente rimasta indietro rispetto a quella degli altri Paesi sviluppati. Il Pil dell’Eurozona è ancora 2,4 punti percentuali sotto il suo picco raggiunto nel primo trimestre del 2008; la domanda privata è di 5 punti percentuali al di sotto dei livelli pre crisi; il tasso di disoccupazione rimane molto elevato all’11,5 per cento”. Alla luce della crescita “sostanzialmente piatta” nella prima parte del 2014, “rimangono ad oggi robusti venti contrari di tipo macroeconomico e finanziario”.

“La crescita rimane fortemente dipendente dalla domanda estera. La domanda interna si è espansa soltanto in due degli ultimi 12 trimestri, mentre le esportazioni nette sono cresciute in 9 degli ultimi 12 trimestri”.

“Con l’inflazione ancora molto al di sotto dell’obiettivo statutario della Banca centrale europea, e con i crescenti rischi geopolitici che diventano un pericolo per la domanda globale, l’Europa fronteggia il rischio di un periodo prolungato di inflazione al di sotto del livello-obiettivo o addirittura di autentica deflazione. Ciò rallenterebbe il ritorno dell’Europa alla crescita, impedendo ancora il processo di ribilanciamento interno che rimane necessario tra il cuore dell’Eurozona e la sua periferia, accrescendo inoltre il fardello reale dei debiti pubblici e privati”.

“Nonostante sia rallentata l’andatura del consolidamento fiscale, la stance di politica fiscale dell’Eurozona rimane recessiva; e il processo di disindebitamento delle banche, assieme alla bassa crescita dei salari reali e alla debolezza degli investimenti continuano a pesare sull’attività economica”.

A scriverlo è il Tesoro degli Stati Uniti d’America nel suo ultimo rapporto di Ottobre.

Rispetto all’Italia, l’establishment Usa si sbraccia a favore della “Leopolda” sostenendo le tesi di Renzi che i diritti e chi li difende sono “reduci, buoni per il museo delle cere”. Infatti, il Wall Street Journal scrive che “[quelli in piazza con la Cgil] vogliono mantenere intatte le garanzie del mercato del lavoro italiane: possiamo definirlo il movimento per il suicidio economico dell’Italia”. Parole durissime che non celano alcuna remora ad intromettersi direttamente nella vita politica e sociale italiana. Un paese vassallo che è stato consegnato ad un Renzi-la-qualunque che imbambola cittadini confusi e stanchi. Per gli Usa è un’operazione a costi relativamente bassi purché non si metta in discussione “l’alleanza” e “il cuneo” che l’Italia costituisce in Europa.

Ma il vero obiettivo americano in Europa è la Germania, come già nel ’17 e nel ’43. Robert Zoellick, già sottosegretario di stato Usa durante la riunificazione tedesca e le trattative di Maastricht (1989-92), lo scrive in modo esplicito sul Financial Times. Ricordando a Berlino che l’unificazione è stata permessa solo nel quadro di un’Unione europea che la Germania avrebbe dovuto rendere economicamente solida e democraticamente forte, lamenta che negli ultimi anni la Germania è venuta meno a quel ruolo di “partner continentale privilegiato” nell’Europa disegnata dagli americani dopo la Seconda Guerra Mondiale. Un richiamo che suona come una minaccia, visto che si ricorda a Berlino che la Germania deve agire “di concerto con gli Usa” in Ucraina, Moldavia, Caucaso, Balcani, e soprattutto nei confronti della Russia. Secondo Zoellick, per risolvere gli attriti tra Usa e Germania c’è solo una via: “ricostruire un partenariato strategico tra i due paesi che trova la sua cornice nel TTIP”. Un messaggio senza equivoci: se per la fine del 2014 il TTIP non sarà ratificato l’America reagirà.

Inoltre, il citato rapporto del Tesoro Usa è esplicito nel criticare la Germania, che è citata ben 16 volte in 36 pagine:

“in Germania la crescita della domanda domestica è stata continuamente debole, e il suo avanzo delle partite correnti (cioè l’eccedenza delle esportazioni di beni e servizi sulle importazioni) rimane superiore al 7 per cento del Pil”.

Gli Usa preferiscono “l’allievo cinese” alla Germania. Infatti, si fa notare come la Cina abbia ridotto negli anni – secondo le indicazioni del G20 e non solo – il suo avanzo delle partite correnti: dal 10,1 per cento del Pil nel 2007 a meno del 2 per cento oggi. Invece, l’atteggiamento di Berlino fa sì che “l’aggiustamento e la compressione della domanda nella periferia dell’Eurozona non sono stati accompagnati da politiche più accomodanti nel cuore dell’Eurozona”.

In conclusione, il Tesoro statunitense auspica, per la prima volta esplicitamente, che i richiami di Bruxelles verso la Germania ottengano “risposte” e producano “politiche mirate a riequilibrare in maniera simmetrica la posizione fiscale dell’Eurozona”.

Con un’Europa nel caos e un’America sempre più arrogante e assertiva è difficile dar torto alle conclusioni cui è giunto, suo malgrado, il presidente della federazione Russa, Vladimir Putin. In un lungo e articolato discorso di politica e strategia internazionale pronunciato qualche giorno fa a conclusione dell’undicesimo summit del Valdai Club (il corrispondente russo dell’Aspen Institute), Putin ha concluso che “l’America non è più un partner” perché la leadership americana non prevede alcun multipolarismo, né alcun rispetto delle regole di un qualsivoglia partenariato tra eguali.

Considerando come gli Usa trattano l’Ue e i suoi stati membri, forse vale la pena riflettere sulle parole di Putin.

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