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Morto, annichilito, scomparso. L’elezione del Presidente della Repubblica ha dimostrato ancora una volta tutta la pochezza della classe dirigente del centrodestra. Di tutto il centrodestra. L’Oscar della sconfitta va soprattutto a Berlusconi e ad Alfano. L’ex Cav. aveva creduto davvero di aver stretto con il premier un patto di ferro. Il patto ad onor del vero ha funzionato perfettamente fino a quando Berlusconi aveva qualcosa da dare a Renzi. Nel momento in cui ha tentato non di riscuotere ma almeno di avere qualche briciola in cambio si è accorto di essere rimasto con un pugno di mosche in mano. Eppure bastava poco per capire che il leader, qualsiasi leader, di un partito che ha la maggioranza relativa non baratta l’unità della sua forza politica per avere in cambio i voti di un movimento che è sulla via del declino. Si aggiunga a questo che l’ex Cav., negli anni, si è circondato non di consiglieri ma di yes-man che o non capivano quello che stava accadendo nel Paese (possibile) o  nascondevano al capo la verità al solo scopo di non contraddirlo (probabile). Alla prima, vera prova di forza, le altre volte Berlusconi aveva sempre ceduto,  il risultato era scontato. Una musata pazzesca. Dietro Berlusconi, a mezza incollatura, Alfano. Era partito  con l’intenzione di dar vita ad un nuovo centrodestra ed è finito quasi peggio del vecchio. Pur facendo parte della maggioranza di governo, a dire il vero pochi oltre a lui e agli altri suoi ministri se ne sono accorti,  ha tentato di cogliere la palla al balzo dell’elezione del Presidente della Repubblica per ricostruire un asse con Berlusconi, più guardando alle regionali che al Quirinale.  Non si è curato, lo sciagurato, del fatto che con quella mossa offriva il destro a Renzi di dar vita ad una maggioranza di riserva, con Sel e i fuoriusciti dei 5stelle, che nel frattempo un’abile regia aveva provveduto a far aumentare di numero. Né si è accorto dell’incongruenza di una posizione che configgeva in modo plateale con la richiesta che lui stesso e il suo partito avevano sempre avanzato, anche se poco ascoltati: le posizioni si concordano prima in maggioranza e poi si va al confronto con gli altri. Così è nato il nuovo asse NCD-FI. E questo è stato il primo errore a cui però se ne è aggiunto subito un secondo. Quando infatti Renzi gli ha fatto presente che tre ministri non potevano votare contro il candidato del loro Presidente del Consiglio e quindi della maggioranza, pena il chiamarsi fuori, allora Alfano è tornato sui suoi passi ed ha appoggiato quella candidatura che fino ad allora, d’intesa con Berlusconi, aveva avversato.   Un capolavoro di tattica che lo ha reso inaffidabile agli occhi dei vecchi alleati, dei nuovi e, soprattutto, degli elettori che ragionano con la loro testa. Meloni e Salvini non sono andati molto meglio. Hanno provveduto da subito ad estraniarsi dal gioco non perché si sono rifiutati di fare combriccola con Renzi ma perché non hanno trovato di meglio che candidare Vittorio Feltri. Insomma invece di proporre il nome di un uomo di destra che incarnasse degli ideali e una visione di vita e di società alternativa a quelle oggi imperanti hanno preferito puntare sulla notorietà del giornalista. Una non-proposta del tutto sterile. Lo stesso Feltri avuta notizia della cosa ha commentato “Sono proprio alla frutta”.

Ora se il centro destra vuole tornare ad essere un soggetto politico degno di questo nome deve  davvero ripartire da zero. Resettare uomini e sigle e ricominciare. Sperando che nel frattempo Renzi non colga la palla al balzo per affondare il colpo decisivo delle elezioni anticipate dando per di più la colpa ai residui fantasmi di un centrodestra che non vuole collaborare a riforme indispensabili a riportare l’Italia fra i Paesi più sviluppati.

La debacle del centrodestra

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