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Più si avvicina l’appuntamento del 28 ottobre, al Quirinale, fra la Corte d’Assise di Palermo e Giorgio Napolitano, chiamato a testimoniare al processo sulla presunta trattativa fra pezzi dello Stato e di Cosa Nostra nella stagione delle stragi di mafia, più gli esegeti dell’accusa mostrano le pulsioni profonde e mal represse degli inquirenti, o almeno di una parte di essi. Si avverte, in particolare, una voglia incontenibile di superare gli impedimenti sinora opposti dalle prerogative del capo dello Stato – ribadite dalla Corte Costituzionale con l’ordine di distruggere le registrazioni delle telefonate con uno degli imputati del processo, l’ex ministro democristiano dell’Interno Nicola Mancino – per portarlo di fatto fra gli imputati del processo. O per farne, nell’immaginario collettivo, l’imputato principale.

Colpevole – lui, che è anche presidente del Consiglio Superiore della Magistratura – addirittura di avere osato indicare nei giorni scorsi il povero Giovanni Falcone come esempio di lotta alla mafia, insignendone la sorella di un’alta onorificenza della Repubblica, Napolitano è stato accusato dal solito Marco Travaglio, sull’altrettanto solito Fatto Quotidiano, di avere colpevolmente tradito la lezione e i frutti dell’azione del magistrato ucciso con la moglie e con la scorta nel 1992. E di meritarsi, magari quando non sarà più al Quirinale, un bel processo al tribunale dei ministri, se gli inquirenti non riusciranno di nuovo ad aggirarne le competenze, come hanno già fatto con alcuni imputati sotto processo a Palermo, ripiegando sull’accusa, per esempio, di falsa testimonianza.

Proprio come ministro dell’Interno nel primo governo di Romano Prodi, fra il 1996 e il 1998, Napolitano è stato indicato da Travaglio come il responsabile della chiusura delle supercarceri di Pianosa e dell’Asinara. Non era stato, del resto, l’allentamento del carcere duro ai mafiosi uno dei prezzi chiesti e ottenuti dalla mafia nella presunta trattativa avviata dallo Stato per indurla a rinunciare alle stragi? Domanda, in verità, che Travaglio non pone così esplicitamente, ma che si legge in filigrana nell’attacco a Napolitano per la chiusura di quei due penitenziari.

A Napolitano come ministro dell’Interno l’inquirente ad honorem del Fatto ha anche rinfacciato alcune dichiarazioni e riflessioni sui “troppi pentiti” di mafia allora in circolazione e ascoltati dagli inquirenti veri, quelli in toga, già impegnati nella ricerca della verità sulle stragi del 1992-93. Ne derivò la necessità di disciplinare meglio i pentimenti per contenerne dimensioni ed effetti. Obbiettivo che fu realizzato dopo pochi anni con tanto di legge dal ministro della Giustizia Piero Fassino, compagno di partito dell’ormai ex ministro dell’Interno. Una legge grazie alla quale, sempre secondo Travaglio, “molti politici, accusati non da tre ma da trenta collaboratori di giustizia attendibili e mai condannati per calunnia, sono stati assolti”.

Adesso quindi sappiamo a chi si debbono tanti presunti e ingiusti salvataggi di imputati eccellenti, e anche le difficoltà nelle quali sono incorsi gli inquirenti impegnati nel processo in corso a Palermo. Difficoltà che potrebbero magari costare alla Procura della Repubblica la sconfitta nella sentenza. Si debbono a Napolitano, tutte e soltanto a lui, che ne ha intanto ricavato come premio due elezioni al Quirinale e il diritto alla qualifica di “Re Giorgio I e II di Borbone”. Che per ora, ma solo per ora, inquirenti onorari ed effettivi debbono accontentarsi di vedere e sentire come testimone – pensate un po’ – di una lettera ricevuta nel 1992 dal suo allora consigliere giuridico Loris D’Ambrosio. Una lettera peraltro diffusa dallo stesso Quirinale dopo la morte per crepacuore del povero D’Ambrosio, che non riuscì a reggere alle polemiche e accuse di avere tentato di aiutare Mancino e quanti altri, compreso evidentemente il capo dello Stato, a coprire la verità sulle stragi e sulla presunta trattativa: la verità però immaginata dagli inquirenti, virtuali ed effettivi.

Già dirottata d’altronde come film di scarso successo nella sale cinematografiche, la vicenda del processo di Palermo è sempre più emblematica dello stato a dir poco confusionale in cui si amministra in Italia la giustizia. Con la “g” rigorosamente minuscola.

Francesco Damato

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