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Concepita come opportunità di arricchimento culturale per adeguare il patrimonio di conoscenze alle trasformazioni tecnologiche e conservare un rapporto vivo con le regole etico-deontologiche, la formazione professionale dei giornalisti italiani presenta contraddizioni palesi. E produce disagi crescenti per i circa 112mila lavoratori attivi in un comparto già colpito da una crisi pesante.

Le nuove regole del governo Monti-Severino

La sua origine giuridica risale al regolamento governativo numero 137 del 2012, messo a punto dall’allora responsabile della Giustizia Paola Severino nella cornice di riforma degli ordini professionali.

Norma che rende obbligatori e permanenti i percorsi di aggiornamento per tutti gli operatori dell’informazione, pubblicisti e professionisti, iscritti da almeno tre anni ai rispettivi albi.

Tre anni – per un complesso di 60 crediti – è l’arco temporale di ogni ciclo formativo che contempla la frequentazione di lezioni, seminari, convegni di approfondimento sui molteplici aspetti dell’attività mediatica. Momenti di apprendimento e riqualificazione che devono essere garantiti a tutti i giornalisti in forma gratuita dagli ordini professionali.

Troppi giornalisti per i corsi

Ed è qui che sorge il primo grande inconveniente. Ben più grave del sacrificio di opportunità professionali, tempo ed energie cui molti operatori dell’informazione sono spesso costretti.

A rendere complicato e nebuloso il quadro è l’insufficiente numero dei corsi gratuiti rispetto alla quantità dei giornalisti attivi nelle varie regioni. È facile che l’adesione ai percorsi formativi si esaurisca in poche ore.

Anche nei gruppi editoriali più importanti i corsi aziendali sollecitati dai richiami gli ordini regionali faticano a farsi strada.

Il boom dei corsi a pagamento

E così, per assolvere agli obblighi di legge ed evitare provvedimenti disciplinari che potrebbero mettere a repentaglio la loro carriera, molti lavoratori finiscono per rivolgersi a corsi a pagamento. Allestiti da istituzioni, enti e associazioni che negli ultimi mesi hanno aumentato notevolmente i costi.

Un aggravio inutile per una categoria già alle prese con seri problemi economici. L’ennesima gabella a carico di chi è chiamato a pagare ogni anno cifre considerevoli all’ordine di appartenenza. Senza considerare quelle richieste per l’assistenza sanitaria e previdenziale a chi è privo di rapporto contrattuale.

Peraltro in molti casi la giornata o le ore dedicate al percorso di aggiornamento non vengono riconosciute come parte integrante dell’attività professionale.

Chi è all’opera?

Tutti elementi che hanno spinto l’ex presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio e Molise Bruno Tucci ad affermare come “i corsi di formazione siano semplicemente una stupidaggine e non servano a nulla”.

A fronte di sacrifici ben poco fondati emergono i contorni di un “affare lucroso e redditizio” per realtà in grado di ricevere l’accreditamento presso i consigli dell’ordine giornalistico.

Tanto che il direttore di Tempi Luigi Amicone ha parlato della “saldatura di lobby e interessi corporativi per ottenere il provvedimento del governo Monti-Severino”.

La risposta del Pd

Argomentazione respinta dal parlamentare del Partito democratico Michele Anzaldi, che ha preannunciato la presentazione di un’interrogazione al Guardasigilli Andrea Orlando – titolare del potere di controllo e vigilanza sull’ordinamento della professione giornalistica – “per fare luce sull’ennesimo controsenso del nostro sistema ed evitare ulteriori speculazioni economiche”.

L’esponente del Nazareno preferisce parlare di applicazione errata e frettolosa, burocratica e onerosa, di una direttiva europea che equipara differenti realtà professionali: “Mentre quello che governa l’attività degli operatori dell’informazione in Italia rappresenta un’eccezione nel panorama comunitario, se pur ben gestita. Ed è per tale ragione che le regole del 2012 meritavano un intervento di mediazione da parte della categoria giornalistica”.

Il rischio del paradosso

A giudizio di Anzaldi la strada da privilegiare è calibrare i percorsi in base alle specifiche esigenze professionali. Un corso di aggiornamento gratuito, spiega, può essere una preziosa opportunità di reinserimento per i giornalisti che non lavorano da tre anni o sono stati espulsi dal mercato lavorativo: “Ma ha senso immaginare il direttore del Corriere della Sera, del Tg de La7 o di altre testate che escono dal lavoro e si rinchiudono in una stanza per formarsi? È pensabile per persone che approfondiscono le notizie ogni giorno e con tutti i mezzi?”

Ma poi, rimarca il deputato del Pd, veramente l’Ordine, l’Inpgi e la Casagit andrebbero in tilt se il 30 per cento degli iscritti non seguisse i corsi e venisse addirittura espulso dagli albi?

Il silenzio degli altri partiti

È per rendere palesi queste incongruenze, rappresentare un malessere crescente e spingere l’esecutivo a modificare il regolamento del 2012 che è stata presentata l’interrogazione al ministro della Giustizia. Ed è stato richiesto un incontro “per avere risposte chiare”.

I tempi sono tutti da definire. Il parlamentare democrat nutre fiducia “nell’attenzione e sensibilità di Orlando”.

L’unico elemento certo dal punto di vista politico è poco incoraggiante: nessun appoggio all’iniziativa è giunto, almeno per ora, dagli altri gruppi parlamentari.

Tutte le follie della formazione obbligatoria dei giornalisti

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