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L’ex ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu è l’erede politico di Recep Tayyip Erdogan, capo dello Stato turco dal 28 agosto scorso, che lo ha designato premier. Ma sul neo nominato ci sono le ombre di un pamphlet in cui teorizzò il neo-ottomanismo, le minacce alle aziende che avessero collaborato con Cipro, una visione islamica della politica, senza dimenticare gli scandali che hanno riguardato tutto il governo turco nell’ultimo anno.

CHI E’

Nato 55 anni fa a Konya (la capitale del conservatorismo sunnita turco) da una famiglia molto religiosa, è stato docente di Scienze politiche. In seguito consigliere diplomatico poi ministro di Erdogan. Tutti lo dipingono come un islamico intransigente e due elementi corroborano tale tesi: sua moglie sempre velata è in prima linea nella battaglia anti aborto, e inoltre Davutoğlu ha teorizzato la cosiddetta proiezione estera “neo-ottomana” del Paese con un libro che fece molto discutere.

IMPERIALISMO OTTOMANO

Almeno dal 2000 è un fermo sostenitore della funzione strategica etno-linguistica della Turchia per far sì che diventi l’attore protagonista dell’intera area mediorientale. Nelle intenzioni c’era la volontà di distaccarsi dal laicismo e dal primo kemalismo per abbracciare una visione “imperiale”, che rifiuti una condizione periferica rispetto a Stati Uniti, Russia, India o Cina.

IL LIBRO

Si tratta di un pensiero che ha esplicitato nel libro Profondità Strategica (“Stratejik Derinlik”, 2001), in cui ha proposto una nuova forma di azione per la diplomazia turca, basata essenzialmente sull’Isma e sul passato ottomano della Turchia. L’obiettivo? Incarnare nuovamente un ruolo di potenza regionale. Deve la sua popolarità inizialmente, oltre che al libro, anche alla mediazione effettuata in occasione dell’offensiva israeliana a Gaza nel 2008, che gli valse pochi mesi dopo i galloni di ministro degli Esteri.

SU KABUL

Il succo della politica neo-ottomana teorizzata da Davutoğlu si ritrova in una serie di passaggi del pamphlet che scosse non poco gli analisti continentali, e anche in una serie di dichiarazioni dello stesso ministro. Come quando nel giugno di due anni fa osservava che “noi, partner regionale immediato ed esteso dell’Afghanistan, condividiamo una storia e un futuro comuni. Abbiamo un ruolo importante per superare questa sfida psicologica, attraverso la creazione di una speranza per un avvenire migliore e di un più forte senso di fiducia per quanto riguarda il futuro dell’Afghanistan e il cuore dell’Asia nella sua totalità. Grazie alla nostra vicinanza geografica, politica e culturale e ad un destino condiviso, tutto ciò che accade in Afghanistan ci riguarda da vicino, in un modo o in un altro”.

CIPRO E GAS

In passato Davutoğlu ha più volte non concordato con Ue e Occidente, dicendo ad esempio – nel 2011 – che lo scudo antimissile contro l’Iran “non ci piace” e facendo trapelare reazioni scomposte anche contro aziende italiane come l’Eni. Infatti in occasione dell’accordo tra Cipro e Israele siglato nel 2012 per le perforazioni congiunte di gas, ha minacciato più volte le aziende internazionali che avessero collaborato. Un passaggio che però era in netto contrasto con il Trattato di Montego Bay, dal momento che l’isola è invasa dal 1974 con 50mila militari turchi e con il leader in persona Erdogan che nel dicembre scorso, sprezzante nei confronti di uno Stato membro e della comunità internazionale, dichiarava pubblicamente che «Cipro non esiste».

RAPPORTI CON UE

Lo scorso dicembre la Turchia ha firmato un trattato per scambiare migranti con visti Ue: Ankara si riprenderà i clandestini transitati sul proprio territorio. L’obiettivo: ingressi più facili per i suoi cittadini, ma nei fatti un passo in avanti per farne tre indietro. In quell’occasione tra Ue e Turchia si registrò la riapertura del negoziato sulla liberalizzazione dei visti, con l’accordo di riammissione degli immigrati irregolari siglato dal commissario europeo agli Affari interni, Cecilia Malmström, propedeutico all’abolizione dei visti d’ingresso nell’area Schengen per i cittadini turchi e soprattutto tappa di avvicinamento all’ingresso di Ankara in Europa. Persistono però i problemi dettati dalla mancata europeizzazione ideologica e politica del Paese, caratterizzata da quelle che l’Occidente ritiene come regressioni «culturali» (per la prima volta in 90 anni di storia, una deputata che, velata, prese la parola nel parlamento monocamerale turco – non succedeva dal 1923, da quando Ataturk impose una rigida separazione fra stato e religione.

twitter@FDepalo

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