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Egregio Direttore,

è opinione condivisa, sino a divenire luogo comune, sostenere che la pubblica amministrazione italiana sia mal organizzata, produca servizi inadeguati, si possa e debba ridurne i costi. I luoghi comuni rischiano però talora di fare d’ogni erba un fascio, arrivando a suggerire interventi che, consapevolmente o meno, mirano ad obiettivi e producono effetti altri da quelli dichiarati. A nostro avviso, riprendendo quanto scritto su lavoce.info del 17 luglio, appartiene a questa fattispecie quanto previsto dall’articolo 22 del decreto legge “Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari” del 24 giugno scorso intitolato “Razionalizzazione delle autorità indipendenti”, da perseguirsi accorpando nove soggetti che talora non hanno nulla in comune, come nel caso dell’Autorità per le comunicazioni con la Commissione di garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici.

La finalità apparente di questa ‘razionalizzazione’ parrebbe essere (non essendo stata esplicitata) quella di ridurne i costi. Insomma: spending review. Di quanto? Limitandoci a considerare le Autorità di regolazione dei servizi pubblici (escludendo quindi altre Autorità), non si avrebbe assolutamente alcun beneficio per le casse dello Stato, per la semplice ragione che a sostenerne il finanziamento sono le imprese regolate e non lo Stato. Per contro si potrebbero avere conseguenze negative di maggior peso. Il punto centrale del provvedimento governativo sta nel comma 10 del sucitato art.22 che abroga un comma della legge istitutiva di queste Autorità, la n. 481 del 1995, che ne stabiliva il decentramento territoriale, per due sostanziali ragioni. Primo: insediarle e radicarle nelle aree del paese ove si concentrava la presenza dei settori sottoposti alla loro regolazione. Secondo: attenuare l’interferenza della politica nel caso in cui esse fossero state insediate, come d’abitudine, a Roma. La lontananza dalla Capitale aveva, in sostanza, l’obiettivo di rafforzarne l’“indipendenza di giudizio e di valutazione” fissata dalla legge dal potere politico e dai partiti. Riportarle tutte a Roma (se questo fosse l’indichiarato intento) rischia di ridurre questa indipendenza. Un convincimento basato su tre presupposti: (a) l’insussistenza di ogni risparmio per lo Stato; (b) il reiterato tentativo dei governi di ridurre potere e ruolo di queste Autorità; (c) la mancanza di proposte volte a migliorare il loro operato.

La politica, si sa, non ama spogliarsi del suo potere. L’istituzione delle Autorità di regolazione dei servizi pubblici proprio questo significò. Fu possibile per la debolezza della politica e non a caso ad istituirle fu un Governo tecnico (per altro con voto quasi unanime del Parlamento). Vi contribuirono altri due fatti: la ravvicinata prospettiva della liberalizzazione dei servizi pubblici che si andava decidendo a livello europeo e la necessità di avviare le privatizzazioni dei monopoli pubblici, come nel caso di Enel. Per riuscirvi, era necessario istituire arbitri indipendenti, dotati di elevata professionalità e operanti con criteri squisitamente tecnici, che, da un lato, tutelassero consumatori, imprese, investitori nel difficile superamento dei monopoli, e, dall’altro, consentissero la privatizzazione delle società che erogavano servizi pubblici subordinata, dalla legge n. 474 del 1994, alla “creazione di organismi indipendenti”.

L’Italia, una volta tanto, può dirsi sia stata all’avanguardia, avendo costituito questi regolatori prima degli altri paesi, a parte la Gran Bretagna, e prima che l’Unione Europea li imponesse a tutti i paesi membri. La spoliazione dei poteri della politica non è durata però a lungo, col periodico tentativo dei governi di ‘riprendersi il maltolto’: riportando al centro compiti e strumenti delegati alle Autorità. Temiamo che anche il provvedimento in esame possa portare a questo. E sarebbe un pesante passo indietro. A scanso di equivoci, va detto che potrebbero sussistere anche rischi di segno opposto. Che siano cioè le stesse Autorità, come accaduto, che, pur prive di legittimità democratica, vogliano dettare alla politica scelte che non le competono, contraddicendo il dettato legislativo che rimanda al Governo la responsabilità di indicare alle “Autorità il quadro di esigenze di sviluppo dei servizi di pubblica utilità che corrispondonno agli interessi generali del Paese”. Alla politica, quindi, la responsabilità di definire finalità e interessi d’ordine generale, alle Autorità quella di declinare le modalità con cui conseguirli.

Anche ipotizzando che nel provvedimento in esame sia implicita una condivisibile critica ad una ridondante duplicazioni di sedi e di costi delle Autorità, non pare che la riforma prospettata colga l’occasione non tanto per ridurre i costi dello Stato (risultato che si è detto essere inesistente), quanto per accrescere l’efficacia della loro azione: aumentandone i poteri ispettivi e sanzionatori; meglio circostanziando i poteri dei giudici amministrativi, sempre più regolatori d’ultima istanza; imponendo una più stringente rendicontazione (accountability) del loro operato, anche riguardo le loro spese di gestione; rafforzando l’incompatibilità dei suoi membri al termine del mandato. In definitiva, riteniamo vi siano buone ragioni per riformare le Autorità. Per contro, temiamo che si rischi di ridurne l’indipendenza e gli ambiti di competenza. Il bilancio per il Paese non sarebbe positivo. Né per i cittadini-consumatori né per le imprese, forse tentate dal far valere i loro interessi frequentando le stanze ministeriali piuttosto che quelle dei regolatori, ma alla lunga perdenti data la discrezionalità, inaffidabilità, incertezza della politica. Cambiare per tornare indietro, e in peggio, non sarebbe un gran risultato.

Alberto Clò
Alberto Cavaliere
Luigi De Paoli
Michele Polo
Enzo Pontarollo
Marzio Galeotti
Luigi Prosperetti
GiovanBattista Zorzoli

Perché la riforma delle authority rischia di minare l'indipendenza dei Garanti

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