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Matteo Renzi ha scelto di portare fino in fondo l’offensiva contro CGIL e minoranza interna del Partito democratico. Responsabili a suo giudizio di “voler spaccare in due l’Italia dividendola tra padroni e lavoratori”.

Per capire quali saranno i riflessi dell’iniziativa del premier nel mondo sindacale e nei rapporti fra politica e organizzazioni confederali, Formiche.net si è rivolta al sociologo Bruno Manghi. Lo studioso, esperto di questioni sindacali e di formazione cattolica progressista, è stato protagonista delle lotte dei metalmeccanici nella CISL guidata da Pierre Carniti.

Il premier sta forzando troppo la mano con le organizzazioni sindacali?

Matteo Renzi ha compiuto un’operazione abbastanza aggressiva affermando “Il re è nudo”. Ha detto ai sindacati: “Non avete più la rappresentatività che venti, trenta e quarant’anni fa vi consentiva di essere interlocutori fondamentali per le scelte politico-economiche strategiche”. È riuscito ad allineare l’Italia alle realtà occidentali, in cui la legge di bilancio non viene certo discussa con le organizzazioni confederali.

A questo punto cosa devono fare i sindacati?

Misurare la loro effettiva capacità di incidere non nei talk show bensì nelle aziende. Rappresentando i lavoratori soprattutto a livello locale. Fatta eccezione per il Belgio e i paesi scandinavi – ove i sindacati esercitano poteri istituzionali nella gestione del welfare – nel resto dell’Occidente si registra da molto tempo una perdita di rappresentatività. Attualmente attestata al 15 per cento circa dei lavoratori. Pensi che negli Usa le realtà sindacali più nutrite sono quelle degli addetti delle case di cura. E in Italia delle imprese di pulizia. Il vero nuovo proletariato.

È una crisi radicale?

Non bisogna esagerare. Perché nonostante il calo di rappresentatività, il sindacato resta un veicolo di partecipazione volontaria più vasto di partiti, confederazioni economico-imprenditoriali, associazionismo religioso.

Coltivando l’aspirazione a divenire anche il “partito degli imprenditori” il PD di Renzi compie un salto culturale storico?

L’aggettivo “storico” mi sembra esagerato. Si tratta di tentativi già perseguiti dalla sinistra politica nel passato. A partire dal Partito socialista di Bettino Craxi, che realizzò un investimento nell’ambiente imprenditoriale con la conferenza programmatica dei “meriti e bisogni” a Rimini nel 1982. Lo stesso Partito comunista aveva provato a proclamare “l’alleanza dei produttori”. Per non parlare del socialismo di Francois Mitterrand, del laburismo di Tony Blair, dei democratici Usa.

Non vede differenze rispetto all’offensiva sferrata dal Presidente del Consiglio?

Renzi ci mette più determinazione. Ma ciò a cui sta lavorando è sempre stato il sogno dei progressisti una volta abbandonato il radicalismo classista: allargare l’interlocuzione con gli interessi imprenditoriali. Una realtà pluralista e poliedrica rispetto alla Confindustria anni Cinquanta. Lo rivelano le oscillazioni politico-elettorali a favore di Lega Nord, Silvio Berlusconi, Matteo Renzi.

La FIOM di Maurizio Landini può trasformarsi in forza politica?

È normale – e frequente nella storia del sindacato e della CGIL – che un leader si monti un po’ la testa quando si sente forte e blandito. Ma sarebbe un errore gravissimo, poiché il sindacato da decenni non è più determinante per il consenso politico. Resta incisivo esclusivamente nel terreno sociale.

Eppure i precedenti non mancano, neanche fra le “Tute blu”.

Si tratta di figure che non hanno avuto grande fortuna politica. Pensiamo alla sfida fallita di Luciano Lama verso il berlinguerismo, o all’isolamento in cui finì relegato Bruno Trentin nella sinistra politica. Allargando lo sguardo oltre i confini della CGIL, gli stessi Pierre Carniti e Giorgio Benvenuto non sono riusciti a trasferire nel mondo politico la potenza della propria leadership sindacale. Se non è avvenuto con loro, non accadrà certo con Landini.

Come valuta lo stato dei rapporti tra governo e sindacati tra articolo 18 e Jobs Act?

L’articolo 18 costituisce un problema inesistente per gran parte dei cittadini. Compresi i lavoratori dipendenti, visto che si parla di poche decine di casi per regione e che tutto ruota attorno all’entità dell’indennizzo da riconoscere alla persona licenziata. Tutto si complica quando le cose diventano simboliche. Come avvenne con la vicenda delle 35 ore nel 1997, che evaporò nell’arco di tre mesi ma sembrava dovesse far crollare l’Italia.

Sarà un punto simbolico, ma le tensioni tra Renzi e Susanna Camusso hanno raggiunto l’apice.

La CGIL è la realtà sindacale più prigioniera della retorica. Si sente l’erede della sinistra politica, e con un riflesso condizionato sta commettendo gli stessi errori dell’epoca del referendum sulla scala mobile. È difficile evitarli, poiché se si alleva uno stuolo di militanti in una logica identitaria poi è complicato uscirne.

Ma la riforma del lavoro merita il via libera?

È un provvedimento che contiene elementi sensati e innovativi. Non so se faciliterà gli investimenti produttivi. Valutiamo con pragmatismo, misuriamoci con i risultati. Proviamo. E, se necessario, correggiamo.

La concertazione è tramontata per sempre?

La grande concertazione ha preso corpo in Italia nei primi anni Novanta. A causa del collasso dell’assetto politico, la cui paralisi decisionale fu sostituita con gli accordi su vasta scala relativi a salari, costo del lavoro, produttività. Ma poi terminò. A riprova che si tratta di un’emergenza episodica. Peraltro quel metodo è cosa rarissima nella storia moderna.

Rarissima?

Sì. Venne sperimentata nel corso delle guerre mondiali, soprattutto in Italia e Usa. Grazie a un’intesa tripartita in cui tutti – governo, imprenditori e organizzazioni sindacali – rinunciavano a pretese specifiche per mettersi a servizio di un progetto collettivo. Poi si riaffacciò in Europa fasi ben precise del Novecento.

Quali?

L’unificazione tedesca, in cui i rappresentanti dei lavoratori dovettero affrontare con le istituzioni federali e regionali il tema della sperequazione salariale tra Ovest e Est. L’accordo stipulato in Olanda nel 1994 per opera del primo ministro Wim Kok, che consentì il raggiungimento dell’obiettivo di uno stipendio per famiglia e l’apertura del part-time a tutti i cittadini. Il ritorno alla democrazia in Spagna all’indomani della caduta del franchismo. Tutte stagioni eccezionali. L’alternativa normale è il confronto e, quando serve, il conflitto sulle strategie economico-sociali.

Nell’ostilità verso la concertazione emergono convergenze tra Renzi e Landini?

Forse. Ma non stiamo inventando nulla. Il sindacalismo nordamericano funziona così da sempre.

La Cgil è prigioniera della retorica della sinistra. Parla Bruno Manghi

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