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Il dossier 5G è uno dei tanti sulla scrivania di Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, che sta preparando la sua missione della prossima settimana in Cina, ospite dal leader Xi Jinping. È la prima visita a Pechino dopo il mancato rinnovo del memorandum d’intesa sulla Belt and Road Initiative (la cosiddetta Via della Seta), seguito dalla volontà dei due governi di rilanciare il partenariato strategico globale sottoscritto nel 2004. Come raccontato su queste pagine nei giorni scorsi, la linea di Palazzo Chigi è chiara, ispirata dal trittico partner-competitor-rivale con cui l’Unione europea definisce dal 2019 le relazioni con la Cina; ma non manca chi, tra politica e burocrazia, preme per la linea morbida per favorire nuovi accordi. Come quello citato ieri da Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy che è stato a Pechino a inizio mese, “di cooperazione, di partnership industriale, soprattutto nei settori della tecnologia green e della mobilità elettrica” che dovrebbe essere finalizzato durante la missione della presidente Meloni.

È un momento decisivo per il 5G in Italia, quello della transizione verso lo standalone, ovvero verso un’infrastruttura completamente autonoma con vantaggi in termini di velocità, autonomia e sicurezza. Attualmente, infatti, siamo ancora nella fase del 5G non-standalone, con la rete 5G che si appoggia interamente a quella sottostante 4G, da cui è dunque dipendente.

Per la parte core della rete, gli operatori italiani stanno utilizzando, come indicato dai governi che si sono succeduti con lo strumento Golden power, soltanto fornitori occidentali. Hanno evitato, quindi, quelli che la Commissione europea ha definito high-risk supplier, vietando sia l’uso dei loro prodotti in tutte le reti che servono l’istituzione europea sia l’approvazione di progetti finanziati da fondi europei in cui appaiono direttamente o indirettamente loro ran e/o core (decisione analoga è stata assunta anche dalla Banca europea degli investimenti). Si tratta in particolare di Huawei e Zte, le due aziende cinesi che già nel 2019 il Copasir, in una relazione al Parlamento, suggeriva di escludere (come hanno fatto diversi Paesi, ultima la Germania) dalla rete 5G italiana alla luce di due leggi cinesi – la National Security Law e la Cyber Security Law – che permettono agli organi dello Stato e alle strutture di intelligence di “fare pieno affidamento sulla collaborazione di cittadini e imprese”.

Nella parte radio dell’infrastruttura, invece, i fornitori cinesi mantengono una presenza importante. Basti pensare che, secondo stime di settore, oltre metà della rete radiomobile di Roma è realizzata con apparati di Huawei e Zte, che servono ministeri, ambasciate e altre strutture sensibili nella capitale, oltre che imprese e cittadini. Stesso dicasi per Milano e altre città importanti d’Italia. La presenza di Huawei e Zte potrebbe anche crescere nel prossimo futuro, con gli operatori chiamati alla transizione verso il 5G standalone che potrebbero decidere di rivolgersi alle due aziende cinesi.

Le caratteristiche dell’infrastruttura 5G, però, rendono la parte radio intelligente, e dunque sensibile, quasi quanto la parte core. Ciò rende quasi superflua la distinzione tra le due parti quanto si tratta di sicurezza nazionale.

Ma non si tratta soltanto di sicurezza nazionale in senso stretto. Ad aprile, la Commissione europea ha pubblicato una relazione sulle sfide poste dall’economia cinese e sulle distorsioni che creano le condizioni di concorrenza sleale (questione al centro della ministeriale G7 Commercio presieduta nei giorni scorsi da Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri). Uno dei punti chiave evidenziati nel documento riguarda le modalità con cui il governo cinese implementa una serie di politiche industriali mirate a acquistare la supremazia in settori specifici ritenuti strategici, tra cui le telecomunicazioni. Da una parte lo Stato elargisce sussidi e altre forme di supporto, dall’altra può applicare le leggi in modo arbitrario e discrezionale per favorire le imprese nazionali rispetto a quelle straniere. A ciò si aggiungono le pratiche di governance aziendali non allineate agli standard internazionali, che permettono una scarsa trasparenza nelle operazioni aziendali che si aggiungono alla completa assenza del controllo sui salari e le condizioni lavorative. Non è un caso, infatti, che le attività di ricerca e sviluppo, la produzione e l’intera filiera delle aziende tecnologiche cinesi, siano interamente concentrate in Cina.

Tutto questo, oltre a creare una barriera significativa per la concorrenza esterna e favorire il mantenimento del dominio delle imprese nazionali, brucia posti di lavoro e capacità d’innovazione delle imprese europee in settori strategici per il continente.

Il settore delle telecomunicazioni in Cina è dominato da poche grandi imprese statali, come China Mobile, China Unicom e China Telecom che godono di un accesso preferenziale alle risorse e regolamentazioni favorevoli. L’intervento statale nel settore è quindi pervasivo e discrimina la scelta dei fornitori di tecnologia. Huawei e Zte generano così cassa nel mercato interno da investire nei mercati esteri. Le pratiche di supporto statale permettono così alle imprese cinesi di offrire prodotti e servizi a prezzi significativamente inferiori rispetto ai concorrenti internazionali, spesso attraverso pratiche di dumping che vedono offrire prodotti e infrastrutture a valori anche del 40% sotto il costo netto alla fabbricazione dei fornitori occidentali.

5G, Huawei e Zte sono ancora tra noi. Appunti per Meloni in Cina

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