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È diventato mainstream collegare conflitto ucraino ed elezioni presidenziali americane. Come pensare che Mosca speri in una vittoria di Donald Trump, poiché, tornato alla Casa Bianca, egli sarebbe orientato ad abbandonare Kyiv al suo destino. Questa convinzione tuttavia si basa su sole dinamiche statunitensi. Inoltre, dà per scontato che le scelte del Cremlino seguano la stessa logica Occidentale. Uno degli assunti che più ha tratto in inganno generazioni di osservatori stranieri di vicende russe.

E ciononostante riproposto di nuovo con fiducia. Al punto di trattare con sospetto l’unico segnale chiaro arrivato da Mosca sulle elezioni Usa, con l’aperta dichiarazione di Vladimir Putin a favore di una vittoria elettorale di Joe Biden.

Secondo molti in Occidente si è trattato di un sostegno non sincero, da alcuni visto come un espediente tattico per confondere le acque e nascondere un reale appoggio a Trump, da altri addirittura un “abbraccio mortale” a Biden per comprometterne la rielezione.

In realtà ci sono svariati elementi che portano il Cremlino, applicando la sua logica, a preferire una riconferma di Biden. Di riflesso essi ci dicono delle possibili future mosse russe; che a più di due anni dallo scoppio della guerra in Ucraina,  ancora fatica a prevedere, prima. E a interpretare, poi.

Il primato della politica (estera)
Dal periodo zarista fino ad oggi, la politica estera è al centro dell’azione di governo russa, segno inequivocabile della sua vocazione storica imperiale. I suoi obiettivi sono prioritari, con enormi risorse investite nei settori della funzione pubblica funzionali al loro raggiungimento, in primis diplomazia e difesa.

Il punto è che i fondamenti di questa politica lasciano molto poco all’improvvisazione. Seguono automatismi consolidati, quasi dei dogmi professionali, insensibili a considerazioni tattiche del momento. Uno di questi è che una politica estera efficace necessita di interlocutori stranieri certi, non importa se alleati o competitori. In altre parole, è meglio continuare a lavorare (o a scontrarsi) con chi si conosce e si è abituati a farlo, perché ogni cambiamento porta novità, incognite e richiede un adattamento, mai facile.

La logica che fa dire oggi a Putin di preferire Biden è la stessa che lo portò nel lontano 2004 a dare un open endorsement a George W. Bush in corsa contro John Kerry per un secondo mandato presidenziale. Allora come ora, il Cremlino dichiarò che, nonostante i dissidi con Bush, era normale sostenere un presidente uscente che già si conosceva.

Trump-Bis: (Fuoco) Amico ?

Nello specifico il Cremlino teme che una eventuale seconda presidenza Trump diventi una replica della prima che, nei fatti, si intestò scelte dure e inaspettate nei confronti di Mosca. Dall’inasprimento delle sanzioni, all’attacco al progetto Nord Stream, allo smantellamento del trattato Intermediate-Range Nuclear Forces del 1987 (sopravvissuto dai tempi di Michail Gorbačëv e Ronald Reagan), allo scontro diretto con Cuba, Iran (con il clamoroso omicidio del generale Qasem Soleimani) e, soprattutto, Cina.

Trump determinò anche un cambio della squadra di governo nella politica estera della Casa Bianca (sono centinaia di posizioni), con l’arrivo di persone nuove, sconosciute alla politica, molte provenienti dal settore privato. Per la diplomazia di carriera russa amante della continuità degli interlocutori si trattò di un salto nel buio che ne compromise l’operatività. Oggi il Cremlino è determinato a non volere ripetere quellesperienza ma ha difficoltà a preparare una strategia vista la assodata imprevedibilità di TrumP.

Biden-Bis: Anatra Zoppa?

Da una eventuale riconferma di Biden, il Cremlino vede aprirsi più spazi di manovra, in primis perché si dà per scontato che egli uscirebbe ulteriormente indebolito dalle elezioni, delegittimato dallo scontro nel sistema politico americano e bloccato nell’azione governativa dall’opposizione dei Repubblicani.

La previsione (quasi una speranza, la stessa rivolta all’epoca nei confronti di Hillary Clinton) è che questo ne faccia una lame duck (anatra zoppa) anche sul piano internazionale, a tutto vantaggio non solo della Russia ma di tutto il fronte anti-Occidentale dei Brics.

Mosca si sente più a suo agio con l’amministrazione Biden perché il presidente (ed il suo entourage, che è poi quello che conta veramente, a Washington come a Mosca), comunque parlano la stessa lingua (fondamentale in politica estera) e hanno canali di comunicazione personali diretti in piedi da decenni.

Senza dimenticare l’importanza che ha per un mainstream interno russo storicamente tarato a criticare le politiche Occidentali, avere come bersaglio Biden, radicato nell’establishment a Washington, rispetto a Trump, piuttosto popolare in ampi strati dell’opinione pubblica russa.

Il paradosso Guerra/Negoziati

Alla luce di queste considerazioni, si può avanzare un’ipotesi sull’apparente paradosso cui stiamo assistendo in questi giorni, ovvero di una contemporanea intensificazione da un lato dell’azione militare russa in Ucraina e dall’altro di segnali di vere iniziative diplomatiche dei Big Players per un negoziato di pace.

Potrebbe trattarsi della strategia russa di accelerare sulle conquiste territoriali da mettere sul tavolo in vista di negoziati che il Cremlino, data l’ incertezza sull’esito delle elezioni americane, valuterebbe di concludere con l’attuale amministrazione Biden (che a sua volta ha dato segnali di disponibilità) piuttosto che rischiare di rimettere tutto in gioco con l’imprevedibile Trump.

Tristemente, la storia ci ricorda che i giorni peggiori di una guerra sono proprio quelli che precedono gli accordi per porle fine.

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