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L’84esima relazione annuale della Bis (Bri, in italiano) arriva in una calda domenica di giugno a preparare un’estate resa ancor più ardente dall’impennata di alta pressione non tanto barometrica – che sarebbe pure tempo suo – ma finanziaria, che ha reso torrido il clima sui mercati internazionali.

Costoro, i mitici mercati, non paghi di aver raggiunto vette storiche, perfette quindi rappresentazioni della straordinarietà delle politiche monetarie che le hanno rese scalabili, ancora in questa metà del 2014 si segnalano per fame di rendimento e quindi di rischio, ignorando, colpevolmente o quasi, che tale appetito sia figlio illegittimo di tale straordinarietà.

Dare soldi gratis, insomma, gonfia di liquidità gli investitori e al tempo stesso abbassa i rendimenti. Con la conseguenza che i soldi gratis non rendono nulla, a meno di non rischiare l’osso del collo.

Ed è proprio su questo crinale, da dove s’intravede il precipizio di una drammatica riprezzatura degli asset, che l’economia mondiale assiste attonita alla sua altrettanto drammatica impennata del debito globale, cui si accompagna finora docile e rassicurante, un’ampia liquidità che le banche centrali promettono docile e abbondante anche in futuro, pur consapevoli come sono – la Bis, in quanto “banca centrale delle banche centrali”, è la principale voce della loro coscienza – che rischiano il collo anch’esse, e con loro gli Stati che le hanno create, qualora arrivasse un’altra recessione.

Sicché ha gioco facile la Bis a invocare una nuova bussola capace di orientare l’economia internazionale e quindi condurla fuori dalle secche del debito, ancora elevatissimo, e della liquidità, altrettanto abbondante e non a caso, che hanno intrappolato i mercati, ma sarebbe più giusto dire gli stati a questo punto, nella camicia di forza di una crescita anemica e spaventevole, perché s’intravede debole anche per gli anni a venire, quando la pressione demografica che grava sul ricco Occidente renderà periclitante la produttività e insieme esorbitanti i costi della sicurezza sociale. “Si parla addirittura di stagnazione secolare”, avverte la Bis, ormai preda della sindrome di Cassandra.

Che fare dunque?

Godersi i rendimenti finché ci sono, suggerisce l’esperienza, che nulla ha che vedere col buon senso. Perché dal crinale il precipizio si vede benissimo e sembra ricordarci il destino che attende noi tutti non appena l’euforia si trasformerà in depressione, con l’incertezza sul quando unica rimasta sul tappeto dell’analisi.

In alternativa rimane solo l’appello alle ormai mitiche riforme strutturali, laddove gli stati dovrebbero esser capaci di capire come sboccare il meccanismo della produttività ormai inceppato, senza peraltro spiegar bene, tale opzione, dove mai tutta questa riconquistata produttività dovrebbe sfogare il suo potenziale di crescita, atteso che poi, pure essendo assai produttivi, c’è sempre qualcuno che deve comprarle le nostre merci.

La risposta dal lato dell’offerta, suggerita dalla Bri, insomma, presuppone una rinnovata propensione al consumo globale, laddove finora, lo dice sempre la nostra Bis, le politiche fondate sulla domanda (a cominciare da quella pubblica) hanno sostanzialmente fallito il loro scopo esplicito – ossia far ripartire la crescita – servendo soltanto allo scopo implicito, ossia salvare le banche e il sistema finanziario, pure se a un costo esorbitante.

E questo è precisamente uno dei punti: il mondo sta sperimentando una terribile e pericolosa trappola del debito.

Il tanto decantato de-leveraging che così tante cronache affolla, a livello aggregato semplicemente non c’è stato. Anzi: i debiti sono aumentati. Sicché da una parte la Bis dice che bisogna smetterla di pensare di usare il debito come un volano della crescita, e dall’altro non può che prendere atto del fatto che non ci riusciamo.

Un bel grafico sommarizza con rara efficacia questa situazione.

Nel 2007 le economie avanzate avevano un livello di debiti (pubblici e privati insieme, escluse le banche) che quotava 135 trilioni di dollari, pari a circa il 250% del loro Pil. Nel 2010, a causa della crecsita di circa il 40% dei debiti pubblici, il totale dei debiti è arrivato a sfiorare il 270% del Pil, e lì è rimasto anche nel 2013.

Se guardiamo ai paesi emergenti, a fine 2007 i debiti superavano di poco i 60 trilioni, la metà circa dei quali concentrati nelle imprese non finanziarie, ma già nel 2010 arrivava ad 85 trilioni, con crescita di tutti i settori per superarli, in larga parte a causa della crescita del debito corporate a fine 2013, superando ormai ampiamente il 150% del loro Pil.

Se guardiamo al mondo nel suo complesso (Arabia Saudita, area dell’euro, Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Corea, Giappone, Hong Kong SAR, India, Indonesia, Malaysia, Messico, Polonia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Russia, Singapore, Stati Uniti, Sudafrica, Turchia e Ungheria), i circa 110 trilioni di fine 2007 sono diventati i quasi 130 di fine 2010 e lì sono rimasti, ormai vicini al 250% del Pil.

In questa generale esplosioni di debiti, quasi ad aggravare le difficoltà di trovare una via di fuga dalla trappola, c’è anche la circostanza che le situazione sono molto diverse da paese a paese. Alcuni debiti sembrano insostenibili, specie pubblici, altri sembrano covare sotto cenere, pensate al caso cinese, altri ancora minacciano di esplodere in tutta la loro virulenza non appena il barometro finanziario cambierà segno.

Dopo l’estate arriva l’autunno, d’altronde.

E questo non serve che ce lo ricordi la Bis.

Il mondo nella trappola del debito (e della liquidità)

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