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Mancino di nome e ora, curiosamente, anche di fatto dopo avere scritto per una vita con la destra. Così appare l’ottantatreenne Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza al processo di Palermo sulla presunta trattativa fra pezzi dello Stato e di Cosa Nostra nella stagione delle stragi mafiose, quando lui era ministro democristiano dell’Interno.

Egli ha voluto assumere sulla controversa deposizione giudiziaria del presidente della Repubblica, programmata al Quirinale per il 28 ottobre, una posizione analoga a quella dei boss mafiosi Salvatore Riina e Leoluca Bagarella. La cui comunanza nel folto gruppo di imputati al processo palermitano gli ha pur fatto pronunciare tante volte parole comprensibilmente dure di disagio e di critica ai magistrati che si sono occupati di lui.

Di fronte al passaggio processuale della deposizione del capo dello Stato, fortemente voluto dall’accusa in quella che il giurista ed ex parlamentare della sinistra Giovanni Pellegrino ha felicemente definito “logica di teatro”, Nicola Mancino ha voluto mettersi dalla stessa parte della Procura e dei boss mafiosi. Egli cioè ha chiesto di assistere alla deposizione di Napolitano e di potervi interloquire, al pari di Riina e Bagarella. Dei quali ha condiviso anche la reazione quando, nonostante il parere favorevole della Procura, è arrivato il no della Corte d’Assise, sino ad annunciare o minacciare pure lui ricorsi nel tentativo di invalidare l’intero processo.

La stravaganza della posizione in cui ha voluto mettersi Mancino, per quanto spiegabile con l’interesse comune a tutti gli imputati a invalidare appunto il processo, risulta ancora più forte se si considera il fatto che si deve in fondo proprio a lui l’anomalia, diciamo così, della deposizione processuale praticamente imposta al presidente della Repubblica, e dall’esito scontatatamente inutile, avendo il capo dello Stato già precisato per iscritto ai giudici di non avere nulla da dire a proposito di ciò che l’accusa intende chiedergli.

Napolitano ha finito per essere coinvolto nel processo a causa delle telefonate di protesta fatte a lui e al suo allora consigliere giuridico Loris D’Ambrosio da Mancino. Che reclamava tra il 2011 e l’inizio del 2012 un intervento del Quirinale per un fattivo coordinamento di varie indagini in corso sulla presunta trattativa con la mafia, visto che in una di esse – quella della Procura di Palermo – lui era sospettato, diversamente dalle altre, di avere in quale modo avallato o coperto traffici oscuri.

Intercettato “casualmente” al telefono con il suo amico, peraltro ex vice presidente al Consiglio Superiore della Magistratura, Napolitano dovette ricorrere alla Corte Costituzionale per fare rispettare le proprie prerogative e fare distruggere le indebite registrazioni trattenute dalla Procura.

Ma prima ancora di ricorrere alla Consulta il capo dello Stato aveva dovuto affrontare il drammatico caso del suo consigliere D’Ambrosio, dimessosi con una lettera per le polemiche seguite alle telefonate fatte anche a lui da Mancino e agli interrogatori subiti ad opera degli inquirenti.

Fu proprio in quella lettera di dimissioni, prontamente respinte da Napolitano ma destinate ugualmente a sfociare dopo un mese nella morte di crepacuore del consigliere, che D’Ambrosio espresse il “timore” sul quale l’accusa reclama di sapere di più nella deposizione testimoniale che il 28 ottobre prossimo renderà il capo dello Stato al Quirinale davanti alla Corte d’Assise e ai difensori degli imputati. Il timore cioè che il lavoro svolto al Ministero della Giustizia dallo stesso D’Ambrosio nella lontana stagione delle stragi di mafia potesse essere stato ed essere ancora scambiato per quello di “un ingenuo scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi” fra pezzi dello Stato e di Cosa Nostra. “Accordi” fra i quali gli inquirenti palermitani includono, nella loro ricostruzione dei fatti e nell’impianto d’accusa, il mancato rinnovo del trattamento di carcere duro per alcune centinaia di detenuti di mafia. Un mancato rinnovo deciso tuttavia non dall’allora ministro dell’Interno, che non ne aveva la competenza, ma dal guardasigilli Giovanni Conso. Che se n’è poi assunto in pieno la responsabilità senza procurarsi accuse che lo spedissero al tribunale dei ministri.

Sotto processo, ma non al tribunale dei ministri, è finito invece Mancino. Che per difendersi è però arrivato all’autorete mediatica di una condivisione di iniziative e argomenti con boss mafiosi come Riina e Bagarella. Non è francamente uno spettacolo consolante per chi ha ricoperto tanti ruoli importanti, essendo stato non solo ministro dell’Interno e, come già ricordato, vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura con Napolitano, ma anche presidente del Senato.

Francesco Damato

L'autogol di Nicola Mancino

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