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Con un comunicato ufficiale di insolita brevità, due pagine appena, si sono conclusi i lavori del G20 tenutosi in Australia, a Cairns, tra sabato e domenica scorsi. Per il resto rinvia ad una mole rilevante di documenti citati in allegato, ben 16.

Tanta stringatezza cela lo scontro tra Usa e Germania, mai tanto profondo, al punto da lasciare nell’ombra anche le preoccupazioni per la crescita cinese che vacilla e per le manovre adottate per sostenerne il sistema bancario.

Di concreto, c’è stato solo l’accordo volto a limitare il drenaggio fiscale da parte delle multinazionali, che finora hanno ottimizzato la tassazione complessiva attraverso architetture societarie e contrattuali che consentono trasferendo i ricavi realizzati nei Paesi ad elevata pressione tributaria ad altre giurisdizioni tributarie più convenienti: un punto, questo, messo a segno dall’Amministrazione americana, che sta cercando di ridurre in ogni modo la erosione della base imponibile.

In prospettiva, ma ancora al livello di ipotesi, c’è il tentativo di lanciare una politica keynesiana, a livello internazionale, attraverso la realizzazione di infrastrutture strategiche volte a migliorare la sostenibilità dei processi di sviluppo. Il nome dell’iniziativa è di per sé entusiasmante: Global Infrastructure Initiative.

Si tratterebbe di ridare smalto alla Banca Mondiale degli Investimenti, l’altra gamba delle istituzioni di Bretton Woods, che dovrebbe fare da pivot come accadde settant’anni fa. D’altra parte, se la Francia fu il primo Paese a beneficiarne, le infrastrutture realizzate dalla Cassa per il Mezzogiorno furono finanziate così per oltre un decennio. D’altra parte, sono state numerose le proposte già avanzate per dare un ruolo più rilevante alla Bei e per utilizzare proficuamente anche i fondi versati all’ESM, che attualmente sono gestiti in modo estremamente conservativo al fine di poterli rendere immediatamente disponibili all’occorrenza. Si tratta però solo di auspici.

Tra Usa e Germania, sono volate scintille. Da una parte c’è stata la posizione espressa dal Segretario americano al Tesoro Jack Lew che, pur ammettendo la esistenza di “differenze filosofiche con alcuni dei nostri amici in Europa”, ha chiesto di fare di più delle sole riforme strutturali: serve un contributo concreto da parte della Germania in termini di aumento della domanda aggregata e di investimenti. Hanno replicato all’unisono il ministro tedesco delle finanze Wolfang Shaeuble ed il Governatore della Bundesbank Jens Weidmann, rispondendo picche: il primo ha ribadito per l’ennesima volta che “deficit più alti non si traducono in una crescita maggiore”, mentre il secondo ha ribadito in una lunga intervista affidata a Der Spiegel che le riforme strutturali da parte di Francia ed Italia sono cruciali. Ed ha concluso diffidando il Governatore della Bce Mario Draghi dall’intraprendere misure volte ad immettere altra liquidità nel sistema: non solo le T-Ltro, ma soprattutto il ventilato acquisto di ABS dalle banche sarebbe un modo per aiutarle trasferendo i rischi di default sui cittadini.

I governanti tedeschi guardano come sempre in casa d’altri, senza neppure considerare come fattore di squilibrio il fatto che la Germania continui ad avere un livello eccessivo di liquidità nel suo sistema bancario, che si riflette in un saldo positivo mastodontico nel sistema Target 2 (+463 miliardi di euro), ed un surplus enorme nella bilancia dei pagamenti: quest’anno sarà di 284 miliardi di dollari, pari al 7,3% del pil. La Cina, che pure è stata considerata per anni l’artefice degli squilibri globali, arriverà quest’anno a 224 miliardi di dollari, pari al 2,2% del suo pil. Dal 2008, la Germania ha accumulato attivi sull’estero per 1.695 miliardi di dollari: è un riarmo finanziario che non crea solo difficoltà alla ripresa economica globale. Ormai incute timore.

La guerra latente fra Stati Uniti e Germania

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