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Le mosse del Congresso statunitense sulla possibile vendita forzata (o messa a bando) di TikTok affondano le loro radici nella consapevolezza dell’immensa influenza che possono esercitare le piattaforme di social media. Dallo scandalo di Cambridge Analytica ad oggi si guarda con attenzione all’impatto degli algoritmi sulle società. Ed è ormai sentir comune che le piattaforme digitali abbiano contribuito, e non poco, alla polarizzazione che contraddistingue il dibattito pubblico in questi anni. Ma se la tossicità su internet avesse poco a che fare con gli algoritmi, e tanto con la natura umana?

Questa è la domanda fondamentale che si sono posti dieci ricercatori, quasi tutti italiani, e che ha guidato un maxi-studio durato due anni. La loro analisi ha preso in esame un corpus di 500 milioni di commenti negli ultimi 34 anni – dagli albori di internet al giorno d’oggi – e ha abbracciato otto piattaforme digitali diverse, dalla primordiale Usenet a social moderni come Facebook e Twitter (oggi X), passando per i “sottoboschi digitali” di Telegram e Gab. Il risultato è un articolo uscito sull’autorevole rivista scientifica Nature, che Formiche.net ha avuto modo di visionare in anteprima.

Il sospetto ricorrente di chi analizza questo campo è che un’interazione digitale si degrada più facilmente di una conversazione “faccia a faccia” perché mancano una serie di segnali non verbali. I contenuti meno civili, come le offese e le prese in giro, fanno sì che gli utenti vadano più facilmente sulla difensiva e finiscano per appoggiarsi alle proprie convinzioni piuttosto che sulle informazioni presentate. Questa dinamica favorisce la polarizzazione delle prospettive e mina lo sviluppo di un dibattito produttivo e democratico. Il tutto, in teoria, è amplificato da algoritmi ottimizzati per catturare l’attenzione dell’utente, che tenderebbero, tra le altre cose, a rafforzare la creazione di camere dell’eco.

L’incidenza di queste ultime varia da piattaforma a piattaforma, ma non è semplice isolare cosa è dovuto alle strutture digitali, e cosa agli umani che se ne servono. Lo scopo della ricerca, dunque, era quello di identificare i modelli comportamentali degli utenti. Spiega Walter Quattrociocchi (professore della Sapienza di Roma e a capo del Center of Data Science and Complexity for Society, nonché coautore dello studio) che il tutto nasce dal voler validare la cosiddetta legge di Godwin – un adagio classico dell’era digitale secondo cui più si allunga una discussione online, più aumenta la probabilità che si tirino in ballo Adolf Hitler e i nazisti.

Gli autori si sono concentrati sulla tossicità dei contenuti (in sostanza, l’insulto o il paragone osceno che farebbe concludere una conversazione “normale” e porta all’estremizzarsi delle discussioni) per isolare gli elementi invarianti, riconducibili alla componente umana – quella che emerge a prescindere dalla “bolla” di appartenenza, dalle circostanze temporali e sociali, e soprattutto dall’amplificazione algoritmica dei contenuti. “Il salto in avanti metodologico è stato abbracciare più piattaforme anziché concentrarci su un singolo social, come si tende a fare di solito: se vogliamo svelare l’impatto della piattaforma sulle dinamiche sociali, serve un approccio comparativo”, nota l’esperto. Si tratta di sistemi molto caotici, aggiunge, ma dai dati è emerso un segnale consistente. E il risultato, quantomeno contrario al sentir comune, è che il discorso online non è andato peggiorando per colpa dei social.

“Abbiamo identificato una persistenza abbastanza chiara delle dinamiche: è vero che con l’allungarsi delle conversazioni aumenta la probabilità che compaiano commenti tossici, ma questo accade ben prima di quanto indichi la legge di Godwin – e non coincide con la chiusura delle conversazioni. Anzi”, racconta il ricercatore, sottolineando (non senza ironia) la “resilienza” degli utenti che partecipano alla creazione di tossicità. Questa emerge dall’oceano di dati come un “elemento caratteristico, sociale, quasi dovuto”, e non dipende dall’esistenza di un “odiatore seriale”, ma è più o meno distribuito tra tutti gli utenti.

“Il ruolo dell’algoritmo è sopravvalutato: ci piace litigare, questo è il messaggio della ricerca. Quello che ci dicono i numeri è che la componente umana è molto forte in queste interazioni social”. Tendiamo a pensare che la dinamica delle piattaforme, e dunque il dibattito online, siano governati da delle specie di Dioscuri digitali; la realtà che emerge è meno suggestiva e forse più desolante. In sostanza, il dibattito online sembra riflettere con accuratezza la natura umana, e la probabilità che un post tossico diventi virale non cambia poi tanto dalla scintillante realtà di Instagram alle periferie digitali di Gab.

Queste le conclusioni dello studio, il cui approccio innovativo – l’analisi comparativa sui dati di diverse piattaforme – è anche una risposta alla crescente opacità delle piattaforme stesse. Pochi giorni fa Meta ha annunciato la chiusura di CrowdTangle, un utilissimo strumento di analisi ampiamente utilizzato da giornalisti e ricercatori per studiare la viralità dei post su Facebook e Instagram. L’esortazione di Quattrociocchi è alla trasparenza: senza un adeguato accesso ai dati rimane difficile vedere i movimenti delle correnti digitali che oggi scandiscono la nostra esistenza, e capire da cosa, o da chi, sono causate le tendenze che emergono in superficie.

E se la tossicità online non fosse colpa dei social? L’analisi di Quattrociocchi

In un nuovo studio apparso su Nature, il professore della Sapienza e il suo team di ricercatori rimettono in discussione il ruolo delle piattaforme nel degradare e polarizzare il dibattito pubblico. Ciò che emerge da una maxi–analisi comparativa è che agli utenti, in fondo, “piace litigare”, a prescindere dal social e dal momento storico

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