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Nella notte del 18 aprile, senza che la notizie avesse eccessiva copertura mediatica, le forze di sicurezza israeliane hanno arrestato un “agente operativo” dello Stato islamico. Il blitz per catturarlo è avvenuto a Beituina, vicino Ramallah, in Cisgiordania, e secondo quanto riferito, il miliziano baghdadista stava progettando di eseguire un attacco nel giro di poco tempo.

L’operazione congiunta per individuarlo e arrestarlo ha coinvolto la Magav (l’unità tattica anti-terrorismo della Border Police che si muove solo per operazioni sotto copertura), insieme a forze aggiuntive di supporto che si sono mosse tutte sotto il coordinamento dell’intelligence interna, Shabak. Il raid è stato frutto di mesi di indagine che hanno tracciato l’individuo, ricostruendo contatti e intenzioni. Tutto in un periodo a dir poco particolare per lo stato ebraico.

Dal 7 ottobre scorso — il sabato della strage di Hamas che ha dato il via alla stagione di guerra in corso — altri otto potenziali attentatori legati all’IS sono stati arrestati in Israele. Segno che qualcosa si sta effettivamente muovendo, ma non si deve scivolare nell’errata banalità che in Italia ha caratterizzato alcune analisi istitutive dopo l’attacco di Hamas — frutto anche di una narrazione diffusa dal governo israeliano, “Hamas è l’Isis” che il premier Benjamin Netanyahu diffondeva per sensibilizzare l’opinione pubblica globale e rendere giustificabile una reazione violentissima che avrebbe prodotto, come è stato, migliaia di vittime civili.

Lo Stato islamico e Hamas non sono collegati. I baghdadisti detestano i miliziani palestinesi, perché li considera deboli nel loro jihad troppo provinciale. Anche per questo, l’IS ha spesso criticato Hamas e gli altri gruppi palestinesi, e anche per questo ha avuta scarsa capacità di creare proseliti nello stato ebraico e in Palestina. Da aggiungere che le istanze dei locali sono già profondamente e storicamente radicate, e che Israele ha alte capacità di controllo nelle dinamiche dei gruppi — sebbene il 7 ottobre abbia subito un attentato enorme che racconta di un altrettanto enorme fallimento della sicurezza interna.

Ma qualcosa potrebbe cambiare adesso? A marzo, lo Shaback ha annunciato di aver smantellato una cellula terroristica che tramava attacchi ispirati dallo Stato islamico: era composta da quattro persone provenienti dalle vicinanze del villaggio di Tarqumiyah, in Cisgiordania, vicino a Hebron. Avevano rimediato 100 ordigni esplosivi, e per costruirli si erano serviti di una delle guide distribuite online dalla propaganda proattiva baghdadista. Sempre temiate i canali digitali dell’IS, inoltre, erano entranti in contatto con miliziani all’estero che li stavano ispirando, indottrinando e aiutando nell’organizzazione logistica e pratica dell’azione.

È una dinamica classica, il controllo da remoto piuttosto che attacchi pianificati come quello di Mosca, sono una forza per lo Stato islamico. A gennaio, altri due terroristi in questo caso proprio affiliati all’organizzazione sono stati arrestati perché pianificavano un attacco a Gerusalemme: avevano precedentemente giurato fedeltà al Califfo tramite la baya, si erano procurati materiali chimici per la produzione di esplosivi e complottato per colpire civili e forze di sicurezza di stanza nella capitale israeliana. Poi altri due cani sciolti, come l’ultimo di Beituina.

L’aspetto interessante, per quanto quasi scontato, è che tutte le minacce provengono dalla Cisgiordania. È abbastanza logico che nella Striscia di Gaza invasa dagli israeliani sia più complicato organizzarsi per un attentato, quanto meno si rischia più facilmente di essere scoperti. Tuttavia, gli arresti raccontano anche nel West Bank si stanno producendo dinamiche di radicalizzazione probabilmente connesse agli effetti del conflitto a Gaza. Dinamiche a cui le istanze delle organizzazioni palestinesi non rispondono completamente, e su cui lo Stato islamico — sempre a caccia di proseliti — specula.

All’inizio di aprile (sabato 6), erano state le forze speciali dell’Autorità nazionale palestinese a effettuare un’operazione anti-terrorismo a Jenin, il più grande campo profughi palestinese, arrestando alcuni individui legati all’IS e sequestrando armi. Secondo l’agenzia Wafa, la cellula aveva intenzione di colpire funzionari di Al Fatah – l’organizzazione al potere nell’Anp – e della polizia locale. Lo Stato islamico, come detto, considera nemici tanto il governo israeliano quanto l’Autorità palestinese, Hamas o Fatah — un problema in più per Abu Mazen e la leadership in Cisgiordania, che forse in un futuro potrebbe prendere il posto di Hamas nell’amministrare anche Gaza.

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