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“Trafitto per sempre dallo spillo di Lee Harvey Oswald come una incantevole farfalla amazzonica inchiodata alle pareti di un museo, John Fitzgerald Kennedy vola immobile da mezzo secolo nella fissità luminosa del suo mito”, scriveva nell’incipit della memorabile corrispondenza da Washington, alla vigilia del 50esimo anniversario dell’assassinio del 35esimo presidente degli Stati Uniti, l’indimenticabile giornalista e scrittore di Repubblica Vittorio Zucconi.

Dieci anni dopo la luminosità del mito di JFK si è molto affievolita ed è ridotta ad una scintilla. Negli ultimi anni la documentazione storiografica e le testimonianze dirette, che continuano a svelare le molte verità nascoste dei quasi tre anni della presidenza Kennedy, conferiscono al 60esimo anniversario del tenebroso enigma dei colpi di fucile di Dallas la bruciante amarezza della delusione per la scoperta delle tante miserie umane di un ideale rivelatosi un falso ideale.

Dalla sex addiction quotidianamente manifestata nei confronti di attrici, cantanti collaboratrici e stagiste della Casa Bianca, alla rischiosissima impreparazione strategica che fece sfiorare all’America e al mondo una guerra nucleare, progressivamente sono emersi svariati lati oscuri che offuscano i ricordi di un affascinante giovane presidente, sempre sorridente, con un taglio di capelli di gran classe, un’espressione seducente ed una oratoria che ancora commuove.

Frasi storiche della serie “Non chiedete cosa può fare il vostro paese per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro Paese”, e “Ich bin ein Berliner”, che in realtà erano pensate e messe nero su bianco da ghost writer come Ted Sorensen e da uno dei suoi più stretti collaboratori, Arthur Schlesinger, autore dei discorsi della Nuova Frontiera, ispirati al pensiero di Gaetano Salvemini.

John Kennedy e la moglie Jacqueline erano molto più giovani e sfavillanti, rispetto ai predecessori quando entrarono alla Casa Bianca portandovi una ventata di modernità nell’atmosfera puritana e compassata della Washington dell’inizio degli anni ’60, tanto da catalizzare un’attenzione persino superiore a quella riservata alle stelle di Hollywood, ai cantanti e ai campioni sportivi. Jacqueline inaugura l’inedita epopea delle First Lady ed influenza la moda e i costumi dell’epoca, mentre le immagini e le foto della coppia presidenziale spopolano ancora oggi sulle tv e i rotocalchi.

Il carisma che i Kennedy irradiavano valsero all’amministrazione l’appellativo postumo di Camelot, in riferimento all’ideale cavalleresco del Regno di Re Artù.

Il mosaico della memoria evidenzia ora come la loro allure consista principalmente nel che cosa sarebbero stati e nel che cosa avrebbero fatto se Jfk non fosse stato assassinato.

“La vera Trinità di Camelot era sedurre, scopare e godere”, ha scritto James Ellroy nella sua opera più celebre e dissacrante affresco noir dell’American Tabloid. Una narrazione che lascia intuire come Dallas abbia apposto una sorta di sigillo di ceralacca sui retroscena dei “misfatti di Camelot”. Misfatti sessuali e di dilettantismo politico.

Da Pamela Turnure a Evelyn Lincoln, nome in codice fiddle-faddle, all’attrice Marilyn Monroe, il lungo e ancora incompleto elenco delle amanti di JFK, oltre alle happening babies le “ragazze per l’occasione”, comprendeva infatti Judith Campbell, contemporaneamente fidanzata di uno dei capi di cosa nostra, Sam Giancana, il padrino di Chicago che su richiesta del padre del presidente, Joe Kennedy il patriarca senza scrupoli della dinasty, si era dato da fare per fare ottenere al candidato democratico quelle poche migliaia di voti in più, determinanti per superare il repubblicano Nixon alle presidenziali del 1960. Tanto che in quegli anni circolava la battuta “Venite a Chicago, la città dove potete votare anche da morti”.

Chiuso il sepolcro imbiancato della vita privata, aprire il capitolo delle decisioni politiche dell’amministrazione Kennedy è ancora più penoso. Troppi, e di scottante gravità, i problemi che in quei suoi primi mille giorni aveva rinviato e affrontato senza avere alcuna preparazione politico strategica: dal massacro della Baia dei Porci a Cuba, dove gli esuli anticastristi addestrati dall’intelligence americana vennero fatti sbarcare senza copertura aerea, ai primi esordi del coinvolgimento in Vietnam, ai diritti civili negati agli afroamericani, allo scoglio soprattutto dei missili sovietici a Cuba.

A salvare il fratello presidente, l’America ed il mondo, scongiurando il primo e ultimo conflitto nucleare, fu il giovane neo segretario alla Giustizia Robert Kennedy.

Bob tenne a bada i generali del Pentagono, al limite della sindrome da dottor Stranamore, e attraverso l’ambasciatore russo a Washington, Anatolij Dobrynin, trattò direttamente con il segretario generale del Pcus Nikita Krusciov.

Il successore di Stalin, che aveva già fatto fare la figura del neofita a John Kennedy al vertice di Vienna nel giugno del 1961, colse al volo l’occasione per liberarsi dell’incubo di dovere affidare all’incontrollabile Fidel Castro la possibilità di disporre di missili nucleari russi istallati a Cuba ed in cambio ottenne lo smantellamento dei missili atomici segretamente piazzati dagli americani in Turchia, nonché l’impegno Usa a non invadere L’Avana. JFK tirò un sospiro liberatorio e corse in televisione ad annunciare che i russi si erano ritirati.

Ignorando le letali inimicizie suscitate negli apparati militari e dell’Intelligence Community di Washington, e anche l’escalation di tensioni sociali della popolazione nera, tensioni a stento mitigate dal pur deluso Martin Luther King, il presidente Kennedy archiviò Cuba, lasciò marcire la situazione vietnamita, e riprese la trafila del dietro le quinte alla Casa Bianca e dei grandi discorsi in giro per il mondo.

Storico quello pronunciato di fronte al muro di Berlino, alla Porta di Brandeburgo il 23 Giugno 1963, scritto sempre da Sorensen & Schlesinger: “Duemila anni fa, il più grande orgoglio era dire ‘civis Romanus sum’ – esordì Kennedy – Oggi, nel mondo libero, il più grande orgoglio è dire ‘Ich bin ein Berliner’. Ci sono molte persone al mondo che non capiscono, o che dicono di non capire, quale sia la grande differenza tra il mondo libero e il mondo comunista: che vengano a Berlino. Ce ne sono alcune che dicono che il comunismo è l’onda del progresso:che vengano a Berlino. Ce ne sono alcune, in Europa come altrove, che dicono che possiamo lavorare con i comunisti: che vengano a Berlino. E ce ne sono anche altre che dicono che sì il comunismo é un sistema malvagio, ma permette progressi economici: che vengano a Berlino. Tutti gli uomini liberi, ovunque essi vivano, sono cittadini di Berlino. E per questo, in quanto uomo libero, sono fiero di dire : Io sono un Berlinese”.

Dopo la capitale tedesca, le ultime città europee visitate dal presidente furono, nel luglio del 1963, Roma e Napoli, che lo portarono in trionfo come un Console romano vincitore dei barbari.

“L’Italia, ha scritto Shelley, è il paradiso degli esiliati – dice Kennedy fra il Colosseo e il Vesuvio, prima di lasciare l’Italia – In questo mio breve esilio dal clima di Washington… Ho immensamente apprezzato questo paradiso come ultima tappa del mio viaggio in Europa. Lascio questo Paese con rammarico e l’unica scusa per la brevità del mio soggiorno é la certezza del mio ritorno, la prossima volta con mia moglie”.

Ma come l’epilogo di una tragedia Shakespeariana John Fitzgerald Kennedy non tornerà più: a Dealey Plaza, a Dallas in Texas il 22 novembre 1963 lo aspettano un fucile italiano di precisione, Carcano Mod. 91/38 e altri sicari mai identificati.

Fantasmi di assassinio che ha segnato un’epoca, ma che in gran parte é ancora misterioso e destinato a rimanere impunito. Dato di fatto sconvolgente per una grande e autentica democrazia come quella americana. Dei mandanti e degli assassini di Giulio Cesare sappiamo tutto, di quelli di Kennedy praticamente niente.

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