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C’è un filo conduttore che lega l’attenzione mediatica di queste ore sulle vicissitudini ai vertici di OpenAI e la spinta dei governi – anche quello italiano, nell’ambito del G7 del 2024 — verso la regolamentazione dell’intelligenza artificiale. Ed è la consapevolezza che l’IA non è una semplice innovazione tecnologica, ma una ridefinizione del rapporto tra uomo e macchina e il ruolo che questa avrà nella società del futuro. Nelle parole di Rosario Cerra, presidente del Centro Economia Digitale, l’IA (anche in congiunzione con la potenza di fuoco del calcolo quantistico) ha il “potenziale di cambiare gli stessi processi innovativi” perché rappresenta “l’invenzione di un nuovo modo di inventare”.

Queste le frasi con cui Cerra ha presentato il nuovo rapporto annuale del Ced, che passa in rassegna il ruolo dell’Italia nell’ambito delle tecnologie di frontiera e offre una prospettiva su come dirigere il corso dell’evoluzione per acquistare più rilevanza in ambito internazionale. Rilevanza che secondo i numeri non dovrebbe mancare, visto che a livello di pubblicazioni scientifiche l’Italia è sesta al mondo a livello di ricerca sull’IA. Ma da uno sguardo più ravvicinato, che considera solo quelle più d’impatto – l’1% delle pubblicazioni più citate e dunque più influenti –, pone il Belpaese al quindicesimo posto su scala globale.

Guardando alla qualità e non alla quantità delle ricerche, gli Stati Uniti rimangono i leader indiscussi nel campo, con una parte del leone pari al 40%. Seguono Cina (31,5%), Regno Unito (13,8%), Germania (8,9%) e Australia (6,8%). A livello europeo la classifica vede Francia (3,9%), Paesi Bassi (3,8%), Spagna (3,7%) e Italia (3,6%) dopo la capofila tedesca. Il quadro è ulteriormente chiarito dal numero di brevetti nel “top 10%” globale in termini di citazioni: Usa 52%, i Ventisette Paesi europei al 17,5%, poi Giappone (15,3%) e Cina (12,6%). Germania, Francia e Paesi Bassi (rispettivamente 7,3%, 2,8% e 2,2%) occupano le prime tre posizioni nel ranking europeo, mentre l’Italia arranca con lo 0,6%.

Certo, la generazione di brevetti non è l’unico indicatore dello sviluppo dell’economia digitale italiana: come ricorda il rapporto Ced, i Paesi più arretrati possono usufruire dei progressi compiuti da quelli più avanzati adottando e facendo propria le innovazioni che da essi arrivano, come ha dimostrato l’adozione fulminea di ChatGpt. Tuttavia, la capacità di assorbimento delle nuove tecnologie diminuisce con l’aumentare della distanza – motivo per cui non si può pensare di “tirare a campare” con i frutti delle innovazioni altrui se si vuole creare valore e rimanere competitivi.

Questa è una delle sfide più grandi dell’Europa, dove alle ambizioni strategiche – come quella di recuperare terreno su una serie di campi fondamentali per la competitività sistemica, oggetto di studio del prossimo rapporto di Mario Draghi per la Commissione Ue – non sempre corrispondono gli investimenti, specie quelli privati. La fotografia del Ced, basata sui dati Ocse, è impietosa: l’investimento cumulato dal 2012 a oggi degli attori di venture capital nel settore dell’IA è poco meno di 450 miliardi di dollari per gli Usa, oltre 250 per la Cina, circa 100 per i Ventisette dell’Ue. Il nostro Paese ha raggiunto il miliardo nel 2023, dietro a Regno Unito, Israele, India, Germania, Canada, Corea del Sud, Francia e Spagna.

Qui il nocciolo del rapporto Ced: stando così le cose è difficile sperare che il tessuto produttivo italiano adotti le tecnologie di frontiera autonomamente e rimanga al passo con gli altri Paesi avanzati. Motivo per cui il ruolo delle grandi aziende nazionali, quelle più in grado di generare e implementare tecnologie di frontiera, quelle più connesse ai mondi della ricerca e dello sviluppo e anche ai mercati internazionali, è semplicemente essenziale. E la rassegna delle grandi realtà italiane nel rapporto Ced, suggerisce che “l’Italia, pur trovandosi in una posizione di debolezza come sistema nel suo complesso, mostra di possedere le potenzialità per accrescere la propria competitività tecnologica” se sarà capace di fare leva su di esse.

Le grandi aziende italiane operano in settori “altamente strategici, come energia, reti di comunicazione e trasporti, sicurezza e aerospazio” e sono in grado di “svolgere un ruolo propulsivo per tutto il sistema economico”. In questa prospettiva, evidenziano gli autori del rapporto, è di particolare importanza valorizzare le loro iniziative in questo campo (descritte dalle realtà in questione nel rapporto) “specie nell’ottica di massimizzare le sinergie di sistema che potranno essere realizzate, e di favorire la loro replicabilità e scalabilità sul territorio nazionale” per non lasciare indietro le Pmi e le altre realtà nel tessuto produttivo italiano.

Per chi scrive strategie e le rende leggi, sottolinea il rapporto, questo sostegno – volto ad amplificare l’impatto economico delle attività più innovative – non si deve limitare a sussidi ma dovrebbe anche cercare di rafforzare le sinergie, rinforzando la struttura delle relazioni tra le varie organizzazioni e soprattutto stimolare le interazioni tra le grandi imprese e gli altri attori. Fare sistema, insomma, sfruttando le competenze delle realtà più avanzate del Paese per metterle a servizio dell’intera nazione.

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