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Anche durante quest’ultima offensiva militare lanciata da Israele contro i terroristi palestinesi nella Striscia di Gaza, il paese che ha (ufficialmente) più condiviso le azioni di Tel Aviv è stato l’America. Tra alti e bassi, sia chiaro: sarebbe stato impossibile non condannare le vittime civili (e sarebbe stato impossibile non provare orrore e sdegno per le immagini strazianti di quei bambini uccisi): gli Stati Uniti hanno infatti usato il termine «sconcertati» per definire la propria posizione ufficiale davanti agli attacchi alle scuole Onu.

In mezzo al sostegno, ci sono state un paio di gaffe diplomatiche (entrambe targate John Kerry: prima si era fatto beccare in un fuori onda a parlare di «altro che operazione di precisione» e poi aveva appoggiato la risoluzione proposta da Turchia e Qatar, Paesi lontani da Israele tanto quanto vicini ad Hamas). Poi l’invio di finanziamenti per il sostegno all’Iron Dome e numerose telefonate dai toni concitati tra il primo ministro Netanyahu e il presidente Obama. Il bonus, arrivato domenica, è la rivelazione dello Spiegel su possibili attività di intercettazione operate lo scorso anno dal Mossad (servizio segreto estero israeliano) proprio sul Segretario di Stato americano, mentre era intento a portare avanti i colloqui con di pace.
Come scriveva qualche giorno fa Zach Beuchamp su Vox, nella spiegazione più semplificata sul perché esista questa relazione, si potrebbe dire «è complicato», e basta. Ma cercando di approfondire si potrebbero trovare diversi fattori che ispirano la filosofia americana su quest’alleanza.

Questioni storiche. Gli Stati Uniti non sono sempre stati vicini a Israele: per esempio, nell’occasione dell’invasione dell’Egitto del 1956, quando le volontà israeliane erano sponsorizzate da Francia e Gran Bretagna, Washington si schierò contro, chiedendo agli invasori di ritirarsi. Allo stesso modo, gli USA per anni si adoperarono nel tentativo di bloccare il programma nucleare segreto di Israele, opponendosi anche con minacce serie.

Il sostegno americano, spinto molto dopo il 1967 (anche secondo quanto sostenuto da importanti politologi americani, come Michael Barnett), è arrivato più che altro come un freddo calcolo strategico. Gli strateghi americani, negli anni Sessanta, cominciarono a vedere Israele come uno strumento utile per bloccare l’avanzata sovietica in Medio Oriente, in un momento in cui le leadership arabe avevano strizzato l’occhio a Mosca. Contenere l’influenza russa era una prerogativa della Guerra Fredda – se ne sa qualcosa anche in Italia – e così gli sforzi americani si concentrarono nel fornire sostegno economico e militare a Tel Aviv, per tenerlo lontano dal blocco-sovietico.

Si potrebbe pensare che questa visione strategica sia venuta giù insieme al Muro di Berlino, ma così non è, anche perché il coinvolgimento americano negli affari mediorientali, diventato primario nel periodo della Guerra Fredda, si è mantenuto tale anche negli anni Novanta – ed oltre. La stabilità nella regione, è restata un pallino americano per diverse ragioni – sì, il mercato mondiale del petrolio è una di queste, ma non l’unica – e anzi, negli anni, gli Stati Uniti hanno assunto il ruolo di garanti di quella stabilità.

Nel corso degli anni, l’America, in Medio Oriente ha avviato partnership strategiche piuttosto solide anche con Egitto e Arabia Saudita (e pure con la Giordania), tutti Paesi che vedono di buon occhio il mantenimento dello status quo regionale americano – al contrario, Iran, Siria, Iraq (dei tempi di Saddam), volevano che gli americani “se ne andassero” dalle proprie terre. Ma a differenze di questi altri stati, Israele per Washington ha sempre avuto un ruolo di primo piano, visto come la “forza stabilizzante” nella regione: il proxy israeliano era considerato il vettore per costruire deterrenza davanti alle minacce, qualora si fossero create problematiche interne in nazioni dell’area.
Nel ruolo americano, rientra a questo punto – ovviamente – quello di mediatore nel processo di pace israeliano-palestinese, unica terza parte potabile (almeno fin qui, poi in questi giorni si è visto che il ruolo dell’Egitto è stato prominente, anche a causa di un annacquamento, temporaneo, dei rapporti USA-Israele). Qui si spiega come mai le ultime tre Amministrazioni, Bush, Clinton e Obama, seppur nelle loro grosse diversità, hanno tutte sostenuto Israele. Il processo di pace – e la più ampia stabilità regionale, molto collegata a quel processo, almeno secondo gli americani – è uno degli interessi strategici degli Stati Uniti, la sponda israeliana è quella scelta dalla diplomazia di Washington. Gli americani tuttavia, anche negli ultimi anni, non hanno dato appoggio incondizionato agli “amici” di Israele, ma si sono opposti quando il comportamento di Tel Aviv si allontanava da quegli interessi – esempi si possono rintracciare in Bush che si rifiutò di sostenere un attacco israeliano contro l’Iran, o nella posizione contraria di Obama sugli insediamenti in Cisgiordania, fino all’avvio del dialogo sul nucleare iraniano. Ma nel tempo, gli Stati Uniti hanno aperto anche ai palestinesi: ultimo di questi passaggi, il riconoscimento dell’attuale governo di transizione, creato dopo il ricongiungimento tra Fatah e Hamas per guidare l’Autorità palestinese – ovvio, che la Casa Bianca abbia chiesto che elementi del gruppo islamista di Gaza, fossero comunque esclusi dalle cariche istituzionali.

La buona politica del sostenere Israele. Gli americani stanno con Israele. Dai dati Gallup sviluppati dal 1988 in avanti, si legge che, nel conflitto israeliano-palestinese, la popolazione statunitense simpatizza per gli israeliani. Nel corso di questi 26 anni il gap tra pro-Israelis e pro-palestinians difficilmente è mai sceso sotto i 30 punti percentuali. Dal 2012 il consenso su Israele ha toccato nuovamente i picchi dell’89 (64% a favore), dopo che alla fine degli anni Novanta era sceso – tra il disinteresse, ma restando ferma la differenza: per capirci, nel ’98, anno del minimo storico di consensi, il 38% degli americani “simpatizzavano” per il popolo ebraico, mentre l’8 per i palestinesi (gli altri se ne fregavano, più o meno).

Questo significa che sostenere Israele non è solo una strategia di politica estera, ma rientra anche tra le pratiche di buona politica che i rappresentanti americani attuano per allinearsi alle richieste degli elettori.

Perché, però, Israele è così popolare tra gli americani? Dati alla mano, la domanda da porsi è sicuramente questa. La risposta si può trovare in due argomenti: il primo sta nel fatto che i cittadini statunitensi vedono nello stato ebraico l’unica democrazia in Medio Oriente, e per questo, un popolo fortemente legato ai valori e alle libertà democratiche, prova intesa con Israele. Dall’altra parte c’è Hamas, organizzazione islamista verticistica classificata tra le realtà terroristiche in America, che mira – con la volontà di distruggere lo Stato Ebraico per statuto – a cancellare quella democrazia.

Altre importanti ragioni di questo feeling, stanno nelle attività di due importanti confessioni religiose, quella ebraica e quella cristiano evangelica, entrambe politicamente molto attive e influenti, ed entrambe apertamente pro-Israele. Il peso degli ebrei americani, che tuttavia sono spesso critici sui risvolti negativi del sionismo mostrandosi aperti e liberali su diverse tematiche (per esempio il blocco dell’espansione nel West Bank), è dal punto di vista elettorale molto importante. Basta pensare che le comunità ebraiche hanno una grande influenza socio-politica in stati come la Florida e la Pennsylvania, spesso decisivi per le elezioni presidenziali.

Le lobby, per quanto con efficacia discutibile. Quando si parla di lobby pro-Israele, automaticamente si pensa all’AIPAC (American Israel Public Affairs Committee) entità effettivamente percepita come molto potente tra gli insider di Washington, che non è sbagliato dire che ha tra i sui obiettivi fondamentali dirigere la politica estera statunitense su interessi concordi con quelli israeliani. Ma quanto influenza effettivamente queste scelte? E quanto quelle scelte sarebbero state diverse senza l’AIPAC?

Il dibattito intellettuale e pubblico americano – e non solo – si divide tra quelli che reputano le lobby pro-israeliani come la forza oscura che mobilita tutto ciò che conta, e chi le vede come entità non di certo secondarie, ma fondamentalmente irrilevanti nei processi che regolano le politiche internazionali. In effetti, la strategia americana di appoggio ad Israele in Medio Oriente, è probabilmente scollegata alla presenza delle lobby e sarebbe stata la medesima anche se non fossero esistite.

D’altronde, la testimonianza della tutt’altro-che-sicura vittoria dell’AIPAC, risale a pochi mesi fa, quando la lobby esercitò pressioni su alcuni rappresentanti per ottenere un ulteriore inasprimento delle sanzioni contro l’Iran – con il fine di sabotare il tavolo su nucleare. In quell’occasione l’AIPAC portò a casa un risultato negativo, tanto che il processo di negoziazione con Teheran sta procedendo.

La posizione americana nei confronti di Israele, potrebbe cambiare? Molti analisti ritengono che l’ago della bilancia sul futuro delle relazioni, possa essere la continua proliferazione di insediamenti israeliani in Cisgiordania, argomento su cui, all’inizio della sua amministrazione, Obama aveva chiesto a Netanyahu di cercare un punto di incontro – Obama ha più volte pigiato sulla necessità di bloccare la crescita degli insediamenti.
Nei primi anni ’90, il Congresso firmò un prestito verso Tel Aviv di 10 mld di euro: sul contratto c’era come garanzia, che Israele non avesse utilizzato i soldi per finanziare insediamenti in Cisgiordania.

Punto cruciale: l’occupazione israeliana nel West Bank, non solo fa venir meno una clausola importante a cui quell’accordo era subordinato, ma rischia di far mancare anche il presupposto cardine su cui si basa il consenso israeliano nella popolazione statunitense: la democrazia. Occupare un territorio impropriamente, non è segno di democraticità, e dunque il principale dei valori condivisi alla base dell’amicizia Usa-Israele può decadere.

Forse in futuro, alla luce dei fatti e delle enormi difficoltà con cui procede il processo di pace, potrebbe essere proprio questo il punto su cui mancherà il sostegno americano, soprattutto tra la popolazione, con l’affare-Israele che prenderà ancora più importanza come tematica di politica interna piuttosto che come strategia internazionale.

Forse, in futuro: per il momento i due paesi restano amici – con qualche incomprensione.

@danemblog

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