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Pubblichiamo l’intervento di Mario Morcellini, Direttore del Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale all’Università La Sapienza di Roma al convegno “100 parole e 100 mestieri per la Rai”

Parto da una nota sui dati pubblicamente utilizzati per descrivere (e spesso per esacerbare) la crisi del Servizio Pubblico. Bisogna ammettere un uso non sempre in buona fede ma spesso appiattito sulle credenze più diffuse di un populismo di bassa lega: si finge di ignorare sistematicamente che i dati riferibili al sistema televisivo generalista sono ormai tendenzialmente critici, e dunque condannati variamente al “segno meno”.

In quasi tutti i sistemi moderni, i media mainstream soffrono la concorrenza delle nuove piattaforme e modalità di fruizione dei pubblici, e dunque la qualità dei dati va letta con molto più rigore e intelligenza interpretativa. Altrimenti finiscono per essere un canto funebre. Dobbiamo dunque sapere che nei dati di decremento dei sistemi televisivi si nasconde una duplicità: da un lato, un declino che definiremo strutturale, dunque legato a variabili che non sono alla portata delle imprese comunicative e tantomeno del volontarismo individuale; dall’altro, c’è invece una componente congiunturale, questa sì strettamente legata alla lucidità delle strategie e delle politiche aziendali.

In questo contesto va letta la performance dell’informazione del Servizio Pubblico. Alcuni decrementi sono da considerare fisiologici – anche se questo non significa lineari – altri sono legati alla lucidità dell’offerta e ad una reinterpretazione di cosa significhi oggi giornalismo di Servizio Pubblico.

Per quanto sia improprio proporre ricette dall’esterno dei processi, in prima battuta c’è un dato di fatto che riguarda non solo il prodotto giornalistico ma anche la “credibilità” dell’emittente. Per larghi versi, l’immagine del Servizio Pubblico è strettamente legata alla percezione di valore dell’informazione, e persino ad una familiarità delle audience con news e approfondimenti targati Rai. Lo stesso successo assoluto e comparativo di RaiNews 24 sta lì ad attestarlo.

Questo riconoscimento identitario e patrimoniale è molto più importante delle tendenze al decremento, perché ci ricorda che la Rai è il principale editore informativo, e anche che questa posizione non cambierà nel breve periodo. È vero infatti che le trasformazioni degli stili di consumo privilegiano modalità di approvvigionamento in Rete molto più individualizzate e frammentarie; ma resta il fatto che il pubblico Rai, sia per i Tg che per i programmi di current affairs, resta una realtà singolarmente forte nella competizione con gli altri sistemi nazionali, e ancor più a livello europeo. È un’importante risorsa patrimoniale.

La disputa si sposta dunque sull’aggiornamento dei telegiornali, tecnologicamente più pronti che in passato a cambiare linguaggi e formati, lasciando ad altri l’ossessione per la cronaca nera che sta affliggendo il sistema informativo italiano. Una selettiva sperimentazione di cambiamenti potrebbe intelligentemente affiancarsi a testate più attente a quella parte di pubblico che ha bisogno indiscutibilmente di rassicurazione dai cambiamenti compulsivi. È mancata un’intermodalità nella strategia di differenziare l’offerta informativa e lo stesso storytelling delle notizie, anche perché l’eccesso di rispecchiamento attuale ha probabilmente avvantaggiato altri competitors.

In seconda battuta, è centrale un ripensamento dell’attualità televisiva dei talk show, che ha creduto troppo nella spettacolarizzazione, fino al punto di farsi tentare da qualche deriva di populismo antisistema. Anche qui è impossibile una ricetta univoca. Ma come per il caso dei telegiornali, una exit strategy deve tener conto di una generale difficoltà a consolidare il patto con il pubblico sull’informazione.

Con queste premesse, le dimensioni capaci di produrre un passo avanti nella conoscenza dei punti di crisi del Servizio Pubblico sono presto detti: chi sta andando meglio nel mercato del pubblico? Chi se la cava in termini di fidelizzazione, soprattutto al tempo della frammentazione degli ascolti? Quali sono i soggetti sociali che più mancano rispetto al passato? Quali sono invece quelli che garantiscono un vantaggio competitivo? E più in generale, cosa fanno e scelgono quelli che mancano all’appello televisivo?

Da un’onesta analisi di parametri come questi discende una correzione di strategie di palinsesto e di programma più aggiornata rispetto ai nuovi profili dei pubblici dell’informazione. A meno che non si voglia continuare l’attuale strategia che punta a regalare alla Rete quote crescenti di pubblico non solo giovanile.

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