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Era che risaliva, andando all’incontrario, un canale sotterraneo. Assai impervio. Non gli erano mai piaciute le strade battute dai più. In lontananza, all’orizzonte, alla sommità del pendio che gli fiaccava la coda che dimenava per darsi movimento, la luce. L’apertura del canale era divisa in due semicerchi perfettamente uguali. Arrivato che fu alla sommità del pendio, una distesa ambrata, completamente deserta. Disabitata. Eccetto che per un fiore senza calice. Uno stelo bianco.
Sporse per un istante la testa fuori ma, subitamente, la ritrasse. Si era accorto di essere un terzo incomodo. Una voce, già, soffiava il suo alito verso lo stelo. Rimase nascosto alla sommità della grotta da cui proveniva. Fermo e acquattato, ad ascoltare.

Voce: quale ardire è questo, il tuo, di sfidarmi così impettito?
Pelo: nessun ardire, mi attribuisce una fierezza che non ho.

Voce: non è forse sfidare quel tuo portare una livrea di siffatto colore?
Pelo: è la natura, non il mio arbitrio a farmi mutar in bianco il pigmento.

Voce: il tuo esistere è per me ammonimento. Ma ti sarà fatale, vedrai.
Pelo: siamo tutti figli della caducità. Non conta quando, se tardi o presto.

Voce: quella terra su cui sorgi è mia. E’ carne, la mia stessa carne. La sua vita è la mia vita. Non hai alcun diritto di rovesciare la clessidra del mio tempo erigendoti come una meridiana sotto gli occhi del cielo. Contandomi come un creditore le ore. Il mio debito di vita.
Pelo: nulla posso io qui senza corolla. Inutile per natura è il mio destino. Il mio colore, il bianco, che tanto t’irrita, è la via, mia unica, verso l’oblio. Il nascondere mio dietro alle quinte della luce.

Voce: non sembra proprio che tu voglia nasconderti, visto che hai scelto il centro della scena.
Pelo: non è mia la colpa se nel curare il tuo orticello seguendo le mode non hai fatto di me raccolto tranciandomi di netto.

Voce: la tua è insolenza bella e buona. Il tuo mimetizzarti è stato cinico e perfetto.
Pelo: tu attribuisci a me una volontà che non mi appartiene. Il tempo fa del mio colore il suo modo di esercitar, su di te, tormento.

Voce: io ho trascorso la vita a riempirmi di tutto ciò di cui avevo bisogno, luce e buio, con l’intento di raggiungere la perfezione della bellezza. Ho dato e ricevuto. Senza mai risparmiarmi. A capofitto lungo il viale dei vizi. Assecondando tutti gli istinti delle viscere tutte. Ho vissuto consumandomi, perché morte non mi trovasse. Che possa rimanere tu e nient’altro delle mie spoglie, solo, di fronte al sibilo ultimo della mala falce.
Pelo: povera te, stai cadendo nella sottile malia della natura e del tempo. Compari astuti e diabolici essi sono. Attraverso di me essi hanno nella tua mente instillato il tarlo. Non gli interessa, a quei due, il consumarsi del tuo corpo. Essi vogliono la mente.

Voce: è giunta l’ora per te, bianco pelo. Non ti permetterò di proferir parola ancora. Ecco ti recido di netto.
Pelo: E sia.

A quel punto si fece innanzi dalla grotta dove se ne stava nascosto lui, lui l’altro.

Spermatozoo: scusate se m’intrometto.
Voce: chi siete voi con quel cappuccio sospetto?

Spermatozoo: sono della vita uno dei tanti commensali e dispensator.
Voce: E cosa ci fate sulla duna che dona la vita?

Spermatozoo: lento fu il passo, persa la via.
Voce: il giorno peggiore avete scelto per questo anonimo vagabondare. Si unisca al pelo che la male falce con un viaggio farà doppio servizio.

Dialogo al femminile: la mala falce e il bianco pelo

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