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Mentre Matteo Renzi definiva lo schema delle sue dichiarazioni programmatiche da neopresidente del consiglio che s’accingeva ad esporre alle camere per ottenerne la fiducia, ho letto due note che lo toccano da vicino e si prospettano entrambe oltre la vicenda del governo Leopolda. La prima nota altro non è che un commento critico dello stesso Renzi alla nuova edizione d’un classico di Norberto Bobbio, Destra e sinistra, uscito vent’anni orsono. L’altra un confronto, dovuto ad un valente politologo francese, Marc Lazar (noto ai lettori di Repubblica cui collabora da anni), fra il neopresidente italiano e il presidente francese François Hollande in presenza di una crisi economica globale che ha profondamente modificato i blocchi sociali di riferimento della sinistra in un’Europa complessivamente sempre più smarrita e incapace di trovare una identità propria.

Lo scritto di Renzi mi ha colpito per la sua serietà, esattamente contrastante con l’immagine ch’egli stesso ha dato di sé all’Italia e al mondo presentandosi come un giamburrasca simpaticone, pasticcione, telegenico ma dal pensiero debole. Ciò che Renzi osserva, a proposito di Bobbio, ha, in verità, un senso autocritico che investe l’intera sinistra europea, e l’italiana in particolare, per la sua caparbia insistenza su una lettura egualitarista (francesista ancor prima che marxista) dell’anticapitalismo e delle collegate formazioni politiche di ieri l’altro, di ieri e di oggi. Non so cosa sarebbe accaduto nel Pd, ch’egli ha vittoriosamente scalato, se i giudizi che sono ora dinanzi ai miei occhi, fossero stati espressi nel corso delle primarie: nelle quali l’ex sindaco fiorentino ha collezionato voti di minorenni extracomunitari, extraparlamentari di sinistra; postcomunisti incalliti; elettori di destra e di centro-destra; burocrati dell’arcipelago rosso che conservano le loro casacche correntizie consapevoli d’essere malamente uniti in un partito che s’è ridotto ad una federazione di corporazioni e di movimenti l’un contro l’altro armato.

Lo stesso dubbio può averlo anche chi, come me, proviene da altra epoca e da altro partito politico, lo scudocrociato. Dove, almeno un quindicennio prima di Bobbio, specie con Ciriaco De Mita, s’invitavano clericali e sindacalisti, dorotei e mastini del potere territoriale, a riconoscere che il mondo non era più quello della guerra fredda; le riforme vere, strutturali, fatte soprattutto da De Gasperi, avevano trasformato l’Italia rurale in un paese europeo di primo livello; mentre i risultati di quelle riforme, e non le lotte per il potere, avevano mutato il volto sociale, economico e politico del paese. Al punto che la vera antinomia non era più fra destra e sinistra (come continuava a pretendere la burocrazia comunista, compresa la migliorista), bensì tra vecchio e nuovo, fra conservazione e innovazione.

Si trattava, come si tratta, di qualcosa di molto diverso dal welfare e dalle concertazioni politiche, in sostanza non molto dissimili dal corporativismo toniolino o rigoliano di cui s’era appropriato il fascismo. Scuole di pensiero più recenti – come quelle di Bauman con la società liquida, De Rita con la sua teoria del frammento –già allora, almeno vent’anni prima della fine del XX secolo e del primo decennio del XXI – avevano spiegato che i cambiamenti effettuati dalle antiche contrapposizioni avevano talmente inciso nel midollo della società a noi contemporanea al punto da ribaltarla.

Anche per effetto della tecnologia e della scienza e, non dunque, soltanto come conseguenza di una comunicazione livellatrice e che, secondo altri superficiali, condurrebbe alla democrazia diretta, definita democrazia 2.0. Renzi crede che il grande cambiamento sia stato realizzato o possa essere prodotto dal partito democratico? Libero di pensarlo. Ma il suo stesso metodo di ragionamento ci porta ad escludere un tale risultato. Mentre sarebbe più logico uno sbocco in nulla continuatore del postcomunismo e della stessa socialdemocrazia europea, ora attiva come ancilla dell’affarismo finanziario più che promotrice di libertà e autonomismo: una questione senza la cui valorizzazione neppure la società mutata potrebbe reggersi.

Il paragone che Lazar effettua fra Hollande e Renzi, invece, a me pare, oltre che puntuale e calzante, un termine di raffronto che merita una prospettiva politica più realistica. Se, su ventotto Stati costituenti l’Unione europea, soltanto undici (compreso Renzi) sono i capi di governo in qualche modo richiamantisi ad un socialismo democratico, ciò vuol, dire che la socialdemocrazia, in Europa, come in Italia, costituisce una minoranza. E che, dunque, pur essendo tutte le sue componenti mobilitate per espandersi, è anche singolare che le altre forze democratiche non possano fare altrettanto; o debbano autolimitarsi perché tra queste ultime si svilupperebbe un populismo, invece considerato estraneo (ma ciò non è storicamente vero) al mondo socialdemocratico.

Lazar pensa che, per paradosso, pur nella loro diversità sotto molti aspetti rimarchevole, sia Hollande che Renzi debbono fare i conti con tre sfide analoghe: come governare? quale politica adottare su temi economici e sociali? Come dare nuovo slancio all’Europa in crisi di ispirazione? Mi chiedo a mia volta: s’interrogano davvero Hollande e Renzi (e relativi supporters) su tali punti a tre mesi dalla consultazione europea? I dubbi, per Lazar, ma soprattutto per chi socialdemocratico e centralista non lo è mai stato, rimangono aperti. Il guaio è che neppure i movimenti concorrenti, francesi e italiani, riflettono sulla svolta non democratica che sovrasta da tempo l’Europa, ormai lontanissima dalla visione di Alcide De Gasperi e di Altiero Spinelli.

 

Lo scritto di Renzi che sorprende

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