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Al nuovo governo appena investito della fiducia del Parlamento non possiamo che augurare una tranquilla navigazione e una solidarietà diffusa delle parti sociali e delle altre istituzioni del Paese che gli consentano di realizzare, almeno in parte, gli obiettivi così impegnativi e “rivoluzionari” che il nuovo premier ha enunciato. Sperando che il “giovanilismo” e l’irruenza grintosa, così come il linguaggio disinvolto e fantasioso, trovino riscontro nella chiara consapevolezza di strumenti e strategie.

L’INTERROGATIVO

E’ ancora troppo presto per azzardare previsioni su ciò che riserva il futuro e sulle reali potenzialità della nuova squadra. Sorge tuttavia in ciascuno di noi un legittimo interrogativo: perché il governo Renzi dovrebbe riuscire a realizzare ciò che quello guidato da Letta non avrebbe potuto, o meglio, perché si è ritenuto in anticipo che Letta non sarebbe riuscito laddove invece potrà arrivare Renzi? Maggioranza e programmi sono gli stessi, le persone sono in larga misura cambiate, ma anche quelle del precedente esecutivo, a parte qualche opportuno aggiustamento, non sembravano poi così inadeguate, a cominciare dal premier Enrico Letta, universalmente stimato e elogiato, assai gradito anche ai partners internazionali. Quali allora le autentiche ragioni di questa strana crisi di governo, culminata, nel giorno di San Valentino, nelle dimissioni del Presidente Letta?

LETTA E IL PD

Che la conquista della segreteria del PD da parte di Matteo Renzi potesse avere ripercussioni sulla tenuta dell’esecutivo era certamente prevedibile e, in un certo senso, rispondente alla logica dei rapporti di forza in un sistema democratico. Era facile immaginare una dialettica serrata tra la nuova segreteria e un governo già in carica da alcuni mesi e scaturito da un compromesso necessitato e non gradito a una larga parte di elettori e militanti del PD. Ma non un cambio della guardia così rapido e brusco. E, soprattutto, non concordato tra i due protagonisti dell’anomala “staffetta”.

Renzi, dal momento della sua elezione alla segreteria, si è più volte profuso nelle rassicurazioni sulla sua lealtà verso il governo, twittando “Enrico stai sereno” e, anche prima di stravincere nelle primarie, ha sempre ribadito la sua indisponibilità a conseguire la premiership senza il “battesimo” delle urne, quelle politiche generali, non le primarie di partito. Che agli impegni solennemente assunti si possa sovente derogare, indotti da esigenze e sfide sopravvenute, può essere comprensibile e, comunque, siamo ormai abituati a questo e altro! Ma, anche tenendo conto di questo, il blitz lascia perplessi.

I PRECEDENTI

Sembra che una crisi con modalità siffatte non trovi precedenti nell’ultimo ventennio, cioè da quando abbiamo imboccato la via del bipolarismo e del sistema maggioritario. Dal 1994 le singole esperienze di governo hanno avuto termine o con la naturale conclusione della legislatura, o per la dissociazione dalla maggioranza di una componente minore, ma determinante, dell’alleanza stessa. Nel caso del quarto governo Berlusconi (2008-2011), l’uscita dei seguaci di Fini dalla maggioranza non determinò, nell’immediato, la caduta del governo stesso, bensì una lenta agonia, con numeri assai precari e risicati in Parlamento, che, in concorso con gravissime difficoltà finanziarie poi intervenute, ne provocarono, un anno dopo, le dimissioni.

Quanto al governo Monti, alla fine del 2012, a dissociarsi dalla maggioranza fu il PDL, ancora forza prevalente della medesima, ma non impegnata direttamente con propri ministri, trattandosi di un governo formato da tecnici. Una fattispecie a parte era stata quella del secondo governo D’Alema. Le sue dimissioni furono determinate da un’autonoma valutazione del Presidente del Consiglio, preoccupato di un possibile logoramento “a fuoco lento”, a seguito del risultato delle elezioni regionali del 2000, ritenuto deludente per il centrosinistra. Mai invece si era verificata una crisi per esplicita volontà del maggiore partito della coalizione, impegnato nel governo a tal punto da esprimere il premier e la maggioranza dei ministri! In altre parole, una sorta di destituzione del premier, da parte del suo stesso partito, prima forza della coalizione. Il primo partito dell’alleanza di governo dovrebbe essere quello maggiormente responsabilizzato e schierato a presidio dell’esecutivo, scudo costante della stessa posizione del premier. Un premier, nel caso in questione, come Enrico Letta cui il PD e anche il suo nuovo segretario non hanno perso occasione in questi mesi per ribadire fiducia e solidarietà.

NON E’ UNA STAFFETTA

Non si può neanche parlare di una vera e propria “staffetta”, perché con questa espressione dovrebbe intendersi un avvicendamento concordato tra chi ceda e chi prenda il testimone e invece Letta ha mostrato tutto il suo dissenso e disappunto, definendo addirittura “raggelanti” le modalità del cambio della guardia e ritenendo ormai saltate tutte le regole generalmente adottate in queste circostanze.

Il giovane neosegretario del PD ha impresso un’improvvisa accelerazione alle sue già note ambizioni di premierato. E il Quirinale e il gruppo dirigente del PD, inclusa la minoranza di Cuperlo, lo hanno assecondato subito, senza resistenze, per convinzione o per rassegnazione.
Forse le sorti della legislatura appaiono in tal modo messe al sicuro e i parlamentari del PD, ma anche degli altri partiti di maggioranza, si sentono ora garantiti dalle incognite che sarebbero derivate da elezioni a breve scadenza, con una nuova legge elettorale (l’Italicum, questo sconosciuto!, o la vecchia legge come trasformata dalla  sentenza della Corte Costituzionale, senza premio e con le preferenze !) e la protesta grillina certo in crescita, nel caso di scioglimento anticipato delle camere, evidente sintomo di persistente inconcludenza dei partiti di governo. La stessa minoranza di un PD segnato, per citare Massimo Franco (editoriale sul Corriere della Sera di quella giornata di svolta di San Valentino), da “lacerazione e conformismo”, ha trovato la forza di superare la sua accesa prevenzione e diffidenza verso Renzi, abbandonando il premier uscente che fino ad ora era stato la bandiera indiscussa di tutti. E questo appare ancora più incredibile se si pensa al disappunto suscitato nelle culture di sinistra dal dialogo avviato con decisione da Renzi con Berlusconi sulla riforma elettorale, che avrebbe restituito fiato, in senso politico, al leader di Forza Italia in una fase di affanno e di obiettiva difficoltà.

NO ALLE URNE

Non condivido la tesi secondo la quale Napolitano avrebbe dovuto rimandarci alle urne. Il Presidente della Repubblica, nella sua sapiente e collaudata sensibilità istituzionale, ha preso atto della disponibilità delle forze minori della maggioranza (Nuovo Centrodestra, Scelta Civica, Udc e Popolari per l’Italia) ad accettare il cambio di premiership. Quindi una maggioranza per un nuovo governo c’era e, in questo caso, non è consentito, nel nostro sistema parlamentare, lo scioglimento anticipato delle camere. La convinzione della necessità di un cambio dell’uomo al timone – e della stessa squadra di governo – ha contagiato, in realtà, l’intera coalizione di governo, tanto gli estimatori del ciclone Renzi, quanto gli scettici o gli avversari di ieri.

Si è detto che il vecchio governo fosse ormai fermo, ma secondo diversi osservatori (come, ad esempio, Eugenio Scalfari), Letta era ormai sulla strada giusta e, forse, avrebbe potuto proseguire con qualche probabilità di successo.
Forse è prevalso lo spirito di conservazione della legislatura, forse si immagina anche una maggiore capacità di contenimento, da parte di Renzi, delle forme di protesta in stile 5 Stelle o in quello dei “Forconi”. O forse, il nuovo governo potrebbe più facilmente contare su una base sociale più forte rispetto al precedente, su una opposizione più collaborativa da parte di Forza Italia e su futuri soccorsi di dissidenti di 5 Stelle. I prossimi mesi e il decorso delle scadenze perentorie indicate da Renzi per le grandi riforme ci consentiranno di comprendere se questa crisi precipitosa sia stata veramente così urgente e necessaria.

Quella domanda che resta tra Letta e Renzi

Al nuovo governo appena investito della fiducia del Parlamento non possiamo che augurare una tranquilla navigazione e una solidarietà diffusa delle parti sociali e delle altre istituzioni del Paese che gli consentano di realizzare, almeno in parte, gli obiettivi così impegnativi e “rivoluzionari” che il nuovo premier ha enunciato. Sperando che il “giovanilismo” e l’irruenza grintosa, così come il linguaggio…

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