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In attesa del terzo anniversario (il 15 marzo) dall’inizio della guerra, in Siria continuano a succedere vicende che spostano l’interesse del conflitto oltre il fronte di guerra (comunque attivo, nel modo che ormai siamo stati abituati a conoscere).

La prima di queste, riguarda una decisione presa dall’Arabia Saudita: nello stesso tempo in cui il ministero dell’Interno ha classificato la Fratellanza Musulmana come gruppo terroristico, il regno si è anche affrancato completamente dall’Isis e da Al Nusra in Siria, inserendo anche i due gruppi sotto la stessa casella – alla stregua di Hezbollah e Shia Huti (combattente nello Yemen del nord).

Riyadh, che sostiene diversi gruppi dell’opposizione siriana con denaro e armi – molti dei finanziamenti, poi, arrivano da soggetti privati -, ha invitato i propri cittadini attivi tra i ribelli anti-Assad (stimati intorno alle 1200 persone) a rientrare in patria, dando 15 giorni di tempo.

Già dal mese scorso, i sauditi avevano fatto sapere di aver messo in elaborazione un decreto contro i propri jihadisti, studiando i gruppi da “colpire”: seconda la decisione degli Interni, le pene previste per i cittadini beccati a combattere il conflitto, andranno dai 3 ai 20 anni di carcere.

Qualcuno ha individuato delle controversie nella decisione: come se l’Arabia, in fin dei conti, affrontasse una scelta estremamente pragmatica, con la quale si potrebbe rischiare addirittura di favorire Assad – cambiando, per certi aspetti, schieramento nel conflitto, pur di combattere il terrorismo islamica di casa propria.

In realtà una lettura come quella sopra espressa – che potrebbe essere considerata d’interesse per i sauditi, evitando che i combattenti rientrino in patria induriti dalle battaglie contro Assad, spostando l’obiettivo sulla famiglia reale (come successe già con il post-Afghanistan e Iraq) – è parziale.

Perché è possibile anche una visione completamente opposta: la scelta di distinguere i gruppi islamisti più di rilievo e di indicarli come terroristi, potrebbe essere parte di una strategia per individuare forze fidate tra i ribelli. Di qui, magari, la possibilità di coinvolgere anche gli Stati Uniti in un piano di finanziamento e di fornitura armi: magari proprio in direzione di quel Fronte Meridionale, di cui si era già parlato.

La seconda cosa successa negli ultimi giorni, riguarda sempre l’Arabia Saudita, ma stavolta con una funzione di catalizzatore per una decisione di un altro paese: il Pakistan avrebbe, per la prima volta dall’inizio del conflitto siriano, preso una posizione anti-Assad.

Anche se ufficialmente sminuita dall’esecutivo, la scelta a quel che sembra sta già mostrando i primi passi pratici, legati alla fornitura di armamenti ai ribelli. (pare attraverso la partnership – ormai consolidata – con i sauditi).

D’altronde il primo ministro Sharif ha rapporti stretti con il paese arabo, che lo ospitò quando fuggì in esilio dal Pakistan, durante la dittatura di Musharraf – e dove avrebbe sviluppato anche buoni interessi economici.

La decisione crea due questioni a rimorchio, tutte problematiche per il Pakistan. La prima riguarda l’equilibrio interno con la componente sciita rischiando di acuire le problematiche di violenza settaria. La seconda altri equilibro, ancora più sensibili: quelli con l’Iran – anche in vista del ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan, luogo che potrebbe diventare il futuro campo di battaglia.

I contatti tra sauditi e pakistani sono stati molti intensi nelle ultime settimane – ci sono state anche esercitazioni congiunte delle intelligence militari – coinvolgendo ministri degli Esteri e Difesa. Il 15 febbraio il principe ereditario saudita Salman bin Abdul Aziz , ha avuto una visita ufficiale di due giorni ad Islamabad: subito dopo il nuovo capo dell’esercito del Pakistan, Raheel Sharif, si era recato a Riyadh.

Il rischio dell’acuirsi delle controversie con l’Iran, a quanto pare, è stato fin qui il deterrente principale che ha tenuto il Pakistan fuori dai giochi: la Repubblica Islamica è un player geopolitico importante nell’area, e la sua potenza è per molti aspetti temuta – le motivazioni, ovvio, iniziano dalla forza nucleare. Il rapporto tra i due paesi, è diventato ultimamente piuttosto aspro: a metà febbraio, poco dopo la visita del principe Salman, l’Iran ha minacciato di inviare le sue forze in Pakistan per recuperare cinque guardie di frontiera iraniane che erano state rapite da gruppi sunniti locali. Il 24 febbraio i talebani pakistani hanno cercato di far saltare il consolato iraniano a Peshawar, ma l’attentato è stato sventato. Tanto per ricordarsi, nel mese di ottobre dello scorso anno, 14 guardie di frontiera iraniane sono state uccise da un gruppo anti-Iran con base in Pakistan.

Il rischio è che il comportamento dell’Arabia, che sta cercando di arruolare il maggior numero di Paesi salafiti contro Assad, renda l’equilibrio tra sunniti e sciiti ancora più instabile. Limitando quest’ultimi a un ruolo di “nutrita minoranza” e trasformando l’Iran nella forza tutelare della sopravvivenza sciita: questione che, è inutile dirlo, potrebbe portarsi dietro una serie di pessime conseguenze.

La svolta di sauditi e pakistani sulla guerra in Siria

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