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L’arrivo a Ginevra del segretario di Stato americano John Kerry non può bilanciare la minaccia di Vladimir Putin di usare la forza per tenersi stretti i territori ucraini che ha già ribattezzato “Nuova Russia”. Di fronte a un Occidente in forte crisi di identità e incapace di superare la crisi sociale (che è cosa diversa da quella finanziaria), è facile prevedere che l’incontro tra Russia, USA e UE non porterà a risultati decisivi, anche se è stato firmato un accordo a 4. A meno che, prendendo atto della realtà, l’incontro non sancisca la spartizione dell’Ucraina, più o meno camuffata per evitare i fantasmi di Monaco. A determinare l’esito sono le carte in mano ai giocatori. Per indovinarle non serve essere bari.

LA DEBOLEZZA DI KIEV
L’Ucraina è debole economicamente, legata allo scomodo vicino per materie prime essenziali, reduce da un passato poco democratico, è al tempo stesso fragile e poco presentabile. La cronaca di questi giorni ha mostrato chiaramente come l’Ucraina non sia in grado di difendersi da sola, ma la risposta dell’opinione pubblica europea alla domanda “Morire per Kiev?” è sin troppo scontata.

CONTINENTE DIVISO
La disparità di interessi politico-economici dei Paesi dell’Unione Europea, frettolosamente allargata a Est senza pensare alle conseguenze, unita al deficit di democrazia della leadership comunitaria, rende impensabile (prima ancora che impossibile) decisioni forti e univoche. L’esperienza ben viva della guerra di Libia del 2011 mostra (beninteso a chi abbia gli occhi aperti) come Europa, viziata da anni di difesa (anche atomica) fornita gratis (o quasi) dagli Stati Uniti, non sia in grado di esprimere una visione politica condivisa.

L’AMMONIMENTO ALL’EUROPA
La necessità di consultare ciascun Paese, e di tener conto delle loro sensibilità interne, rende inimmaginabile il ricorso a quel che resta delle forze armate europee. Il recente richiamo di Barack Obama al prezzo della libertà non vuol dire (solo) acquisto di F-35, ma anche superamento dell’idea che non esistano opzioni militari. In forma assoluta (come per la Germania, grande partner commerciale di Mosca) o relativa (come l’Italia, per tradizione legata al mandato ONU che il veto russo rende però impossibile).

LE MOSSE DI OBAMA
Cent’anni fa il presidente Teddy Roosevelt passò alla storia anche per la battuta sul “parlare dolcemente e portare un bastone nodoso”. Obama sembra fare il contrario: alza la voce ma con armi spuntate. Il riposizionamento strategico verso l’Oriente, basato sull’idea della fine della competizione politica con la Russia, si è dimostrato un vacuo concetto da consulenti d’impresa piuttosto che il frutto meditato di un’approfondita analisi storico-politica. Lo stesso errore fatto quando Bush figlio immaginò di trapiantare la democrazia in Iraq e Afghanistan.

IL RAPPORTO USA-RUSSIA
Il pur enorme bilancio militare sconta dieci anni di spese di guerra, che hanno compresso gli investimenti per mantenere le operazioni. Di fatto gli USA non sarebbero in grado di affrontare una crisi prolungata con la Russia e meno che mai una guerra, per la quale dopo aver riorientato l’organizzazione verso i conflitti asimmetrici forse non hanno più nemmeno i mezzi adatti. In più, oggi dipendono dalla Russia molto più di prima: basti pensare al trasporto di astronauti da e per la stazione spaziale internazionale, che dopo la radiazione degli Shuttle è garantito esclusivamente dalle Soyuz.

LA STRATEGIA DI PUTIN
Resta la Russia. Al suo storico complesso di insicurezza e di accerchiamento si aggiunge la nostalgia per il recente passato di superpotenza. L’operazione Ucraina parla alla pancia dei russi, che non si rassegnano al presente da nazione esportatrice di materie prime che pure sono lo strumento di pressione più efficace non solo nei confronti degli ucraini ma anche verso Paesi storicamente timidi ed equilibristi come l’Italia. Ma l’arma più importante nell’arsenale di Putin è la ricerca determinata di un risultato politico interno, che sovrasti i dubbi sull’autoritarismo sempre più marcato. Ai russi piace l’idea di costringere gli USA a scendere a patti o accettare il fatto compiuto, ed è a questo che punta Putin.

POCHE CARTE IN MANO
A ben guardare, dunque, tutti i giocatori hanno carte deboli ma uno solo ha il sangue freddo per bluffare e rilanciare. Il fantasma di Monaco, con Putin nei panni di Hitler pronto a raccogliere quanto gli altri sono pronti a concedergli pur di tornare a casa proclamando “la pace nei nostri giorni”, si agita più che mai. Per quanto siano forti i rischi di una crisi sfuggita di mano, la vera domanda è se l’orso russo sarebbe più pericoloso prima o dopo aver digerito il boccone ucraino. Fame placata o antipasto?

La crisi ucraina, l'accordo di Ginevra e i fantasmi di Monaco

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