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A fasi alterne si riaccende ogni tanto il dibattito sulla presenza dei cattolici in politica dopo la conclusione dei partiti che animarono la vita politica italiana dal dopo guerra agli inizi degli anni novanta del secolo scorso: è un tema significativo per quel che vale in termini politici, culturali, sociali, di civiltà per l’Italia e l’Europa.

Questo riaccendersi suscita delle domande: innanzitutto perché non si spegne? Sicuramente per l’importanza citata ma anche per il fatto di rappresentare una ferita aperta nella storia d’Italia perché la fine di tale presenza organizzata è stata l’unico vero risultato della sedicente seconda repubblica fondata su una presunta “rivoluzione giudiziaria” e che ha visto una evidente sintonia soddisfatta tra destra e sinistra ma anche l’aprisi di un vuoto mai riempito da nessun meccanismo di ingegneria politica ed istituzionale imposta.

Insomma non si è trattato di una morte naturale ma è una sorta di “cold case”. In secundis tale dibattito si nutre di plurime spiegazioni, spesso dotte, molte volte semplicemente auto-indotte, da parte di chi si è trovato sul “luogo del delitto” e in posizioni utili per evitarlo.

Normalmente viene spiegato alternativamente con una distorta interpretazione del concetto di pluralismo, una sottile confusione tra l’idea di laicità sempre citata ma poco capita fino a confonderla col laicismo, il fatalismo degli eventi, una interpretazione macchiettistica della storia, una riduzione geografica della politica, una confusione tra identità e metodo, insomma con intellettualismi senza saggezza. Cosa smentisce tali ricostruzioni?

La risposta è semplice: il paragone impietoso tra le dinamiche che coinvolsero la Democrazia Cristiana italiana e la Cdu tedesca più o meno negli stessi anni. Due comportamenti delle rispettive dirigenze completamente agli antipodi con la seconda che oggi rimane il principale partito popolare della Germania, mentre della prima per capire il disastro è possibile riandare alla puntuale analisi del più importante esperto italiano di simbologia e denominazioni partitici, ossia Gabriele Maestri attraverso i suoi libri e il suo prezioso sito isimbolidelladiscordia.it.

C’è stata una sorta di esplosione nucleare delle fila che presero in quegli anni in mano la situazione che ha portato tutti dappertutto con lo scioglimento dei partiti per individuali sopravvivenze che oggi si stupiscono per non avere casa coerente con una ispirazione in partiti socialisti, conservatori, personali, radicali e liberisti.

Ce ne sarebbe per stupirsi dello stupore! E sono esattamente quelli che hanno difeso la diaspora e l’imposizione bipolare a tendenza bipartitica fintanto che questo permetteva una salvezza in cambio della possibilità di sventolare una foglia di fico cattolica (e tale difesa in realtà permane nella categoria dei “cattoconsulenti”): la fine di quelle possibilità ha contribuito a riaccendere il dibattito sui cattolici ma senza constatare che nel mentre chi si è messo ad animarlo ha un passato da docente di “sostegno ai partiti unici, all’ineludibilità dell’o di qua o di là e alle contaminazioni culturali” ed è invecchiato.

Non si possono negare, comunque, anche le responsabilità dell’arcipelago cattolico, movimenti, associazioni, ecc…, che ha abbattuto ponti a causa di una presunta modernità che alla fine è risultata invece legata a infiltrazioni ideologiche, collateralismi di potere, induzione alla frattura tra cattolici: per non tirarla lunga – servirebbe riprendere in mano le opinioni di marca diversa ad esempio di Pietro Scoppola e Gianni Baget Bozzo che alla fine puntavano, da posizioni e lidi diversi, a un eguale risultato – basti dire che è stato un attimo passare da “cattolici adulti” a “cattolici inciampati”.

Il problema, dunque, del dibattito sui cattolici in politica sta nell’emersione del fatto che coincide con la vecchia classe dirigente che lo anima che non ha fatto i conti con la storia, votatasi da tempo ad una “cultura della mediazione” (che si differenzia dal “metodo della mediazione” per la presenza, in quest’ultimo, dei limiti) e all’indifferenza dell’identità con la storia democristiana, conseguentemente, sbandierata solo come pedigree senza aspirare alla coerenza della testimonianza e ad una visione e colleganza popolare e democratico cristiana europea (insomma c’è pure del provincialismo!).

Come risolvere il problema per una fase costituente che rimetta una storia a radice di una nuova casa e passare da un dibattito polveroso, meramente pre-elettorale, ad uno che assuma un’efficacia capace di partire dal messaggio di Papa Francesco al Ppe? Non servirebbero, forse, l’aiuto degli amici  europei e una “Norimberga” democristiana e popolare?

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