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Con una nuova presidenza Trump non ci sarà discontinuità su economia e fisco. L’analisi di Lombardi

L’attuale impostazione della politica monetaria, come, del resto, il ricco arsenale di strumenti sperimentati dalla crisi finanziaria internazionale del 2007/2009, non subirà variazioni significative nel contesto di una seconda presidenza Trump. Lo spiega Domenico Lombardi, direttore del Policy observatory della Luiss School of government

In una situazione di sostanziale parità fra i due candidati occorre chiedersi come potrà essere una eventuale nuova presidenza Trump, qualora lo sfidante repubblicano riuscisse a prevalere sull’attuale presidente democratico, Joe Biden.

Al netto di una retorica che ritornerebbe spumeggiante, a tratti imprevedibile e persino irritante, le sue politiche economiche sarebbero, invero, assai più scontate. Proviamo a esplorarle partendo da ciò che Trump ha fatto nel corso del suo primo mandato presidenziale dal 2017 al 2021, avendo cura di distinguere la componente domestica delle sue politiche economiche da quella più squisitamente internazionale.

In generale, le politiche economiche dell’amministrazione americana sono silenziosamente calibrate dal complesso economico-finanziario costituito dal dipartimento del Tesoro e dalla Federal reserve (Fed) che si sono tradizionalmente ricavati un perimetro di relativa autonomia tecnocratica dagli altri dipartimenti dell’amministrazione e, in parte, dalla stessa Casa Bianca, al netto delle direttive strategiche che ciascun presidente legittimamente impartisce.

Non è un caso che il titolare del dipartimento del Tesoro nell’amministrazione Trump, Steven Mnuchin, abbia operato in continuità per tutta la durata del mandato presidenziale a differenza dei titolari di altri dicasteri o dello staff presidenziale che, invece, hanno conosciuto numerosi avvicendamenti.

Nel caso della Fed, si ricorderà che il presidente Trump attese – legittimamente – la scadenza del mandato dell’allora presidente della Banca centrale Janet Yellen per proporre al Senato la nomina di Jerome Powell, poi confermato dall’amministrazione Biden per il secondo mandato nel segno di un’apprezzata continuità.

E proprio nel segno della continuità è probabile che l’economista Christopher Waller, uno dei governatori della Fed nominato a suo tempo da Trump, possa aspirare a un ruolo di maggior rilievo nei prossimi anni nel caso di una vittoria elettorale dell’ex presidente.

Waller, un economista di talento ma anche di basso profilo, si è distinto per aver formulato uno scenario in cui la somministrazione dell’inasprimento monetario, a partire dal 2022, per stabilizzare l’inflazione crescente non avrebbe determinato un salto discreto del tasso di disoccupazione come i manuali di macroeconomia avrebbero, invece, suggerito.

In sostanza, aveva previsto il soft landing. In un mercato del lavoro surriscaldato come quello successivo alla ripresa pandemica con un livello di posizioni vacanti storicamente elevato, suggeriva Waller, i datori di lavoro avrebbero reagito alla restrizione monetaria chiudendo le posizioni vacanti piuttosto che licenziando i lavoratori in forza presso le loro aziende.

E così è andata, almeno finora. Le recenti previsioni del Fmi hanno suggellato il soft landing con un tasso di crescita per il Pil americano pari al 2,7% nell’anno in corso – superiore al tasso di crescita potenziale – e un tasso di disoccupazione sotto il 4%, su valori storicamente minimi. Eppure, la Fed di Powell e Waller non è una banca centrale fatta di colombe e va dato loro credito di aver avviato la disinflazione prima della Banca centrale europea.

Nel complesso, l’attuale impostazione della politica monetaria – come, del resto, il ricco arsenale di strumenti sperimentati dalla crisi finanziaria internazionale del 2007-09 – non subirà variazioni significative nel contesto di una seconda presidenza Trump.

È probabile, inoltre, che anche l’impostazione della politica fiscale presenti alcuni elementi di continuità. Negli ultimi anni la sua postura è stata iper-espansiva con un disavanzo che, rispetto al Pil, ha raggiunto l’8,8% lo scorso anno, il 6,5 nell’anno in corso e un previsto 7,5 per il 2025, secondo il Fmi.

Anche se il disavanzo fiscale dovrà essere mitigato per non compromettere la sostenibilità fiscale nel lungo periodo, non è ipotizzabile un brusco cambio di rotta, ma piuttosto una ricomposizione del peso relativo di alcuni comparti di spesa. Tra questi, figurano le spese per la Difesa: l’attuale amministrazione prevede di diminuirle in termini reali già dal prossimo anno con un aumento nominale dell’1%.

Inoltre, le proiezioni sono per un suo ridimensionamento rispetto al Pil nel prossimo decennio: si passerebbe dall’attuale 3 al 2,4% del Pil previsto per il 2034. Per mettere in prospettiva questi valori, al tempo della presidenza Reagan, le spese militari pesavano per il 6%.

Alla luce degli incerti e sempre più conflittuali scenari geopolitici, è ragionevole aspettarsi che le spese per la Difesa non verranno compresse così come previsto dall’attuale amministrazione, ma tenderanno a riflettere in modo più aderente le circostanze particolari che le democrazie occidentali stanno fronteggiando.

È ipotizzabile, invece, che le frizioni con gli alleati europei aumentino, accentuando le contraddizioni di fondo già presenti che, tuttavia, la retorica composta dell’attuale amministrazione cela in parte. Da un lato, l’antagonismo con la Cina diventerà più marcato con politiche commerciali e degli investimenti maggiormente sanzionatorie per contrastarne il potenziale di supremazia tecnologica ed economica che la precedente amministrazione Trump aveva saggiamente individuato come minaccia alla sicurezza nazionale.

Dall’altro, si moltiplicheranno le richieste agli alleati europei di segnare una chiara discontinuità con l’approccio del passato, secondo il quale alla lealtà strategica e militare verso il blocco occidentale e della Nato, non corrispondeva una simmetrica scelta di campo nelle politiche commerciali e degli investimenti.

In altre parole, le relazioni commerciali e di investimento con la Cina diventeranno ulteriormente selettive con significative ripercussioni per quelle economie, Germania in testa, che tali relazioni erano riuscite a intensificare con particolare successo. L’alleato americano guidato dal presidente Trump sarà meno tollerante rispetto a questa ambiguità strategica, senza tuttavia fornire partite compensative come, per esempio, un’area transatlantica di cooperazione economica rafforzata.

Proprio l’amministrazione Trump aveva interrotto il tavolo transatlantico per negoziare il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, l’amministrazione Biden non ha fatto nulla per reintrodurlo, esitando a declinare in termini più ampi la relazione transatlantica che, ad oggi, ancora insiste sulla sua dimensione strategico-militare. Anche in questo – oltre la postura e i cinguettii provocatori – una nuova amministrazione Trump agirà in continuità.

Analisi pubblicata nell’ultimo numero della rivista Formiche 202

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