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Perché (nonostante Khashoggi) la stella di MBS brilla più forte

La serie di impegni (diretti e laterali) del G20 per il presidente americano, Donald Trump, s’è conclusa con una colazione di lavoro con l’erede al trono saudita Mohammed bin Salman, “un mio amico” come l’ha chiamato l’americano, “un uomo che ha fatto tante cose negli ultimi cinque anni in termini di apertura dell’Arabia Saudita”; “Penso soprattutto a ciò che hai fatto per le donne e vedo cosa sta succedendo, è come una rivoluzione in un modo molto positivo”. “Stiamo cercando di fare del nostro meglio per il nostro Paese, ed è un lungo viaggio” ha risposto MbS. E basta questo passaggio durante i brevi commenti concessi ai giornalisti sull’incontro riservato tra i due (e rispettive delegazioni) per capire lo spin che si è voluto dare.

MBS, IL FUTURISTA

Nei giorni scorsi bin Salman è tornato al centro delle critiche globali perché un report Onu – che Riad ha già commentato come inattendibile – lo tira in ballo come mandante dell’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi, editorialista del Washington Post critico del regno, eliminato da una squadraccia dei servizi segreti sauditi nel consolato di Istanbul lo scorso ottobre. Il ruolo di MbS era stato citato dai servizi turchi e della Cia, oltre che da varie ricostruzioni giornalistiche, e durante il briefing stampa dopo il faccia a faccia un reporter ha avanzato una domanda al presidente Trump che però ha deviato e confermato la sua linea: escludere – almeno formalmente – coinvolgimenti dell’erede.

L’incontro al G20 con Trump è stata la definitiva riqualificazione del saudita, con quello spin che ha teso a sottolineare il nuovo patto sociale che il giovane erede ha stretto con i suoi cittadini a cui ha promesso un sogno. Una dimensione enorme che ha portato MbS a portarsi dietro una lettura futuristica del suo (quasi) trono, e già attuale ruolo di policy-maker: qualcosa in cui i sauditi, soprattutto i millennials (la fascia anagrafica più popolosa in Arabia Saudita), credono profondamente. C’è un’immagine che testimonia il quadro: lo scorso novembre, a meno di un mese dal caso Khashoggi, MbS era apparso isolato durante il vertice dei venti grandi del mondo di Buenos Aires. Pochi incontri diretti, strette di mano fredde, e la foto del meeting con lui relegato in un angolo in alto. L’iconografia in certe circostanze è sostanza: a Osaka, il principe saudita è in prima fila, al centro del gruppo, da una parte Trump dall’altra il padrone di casa Shinzo Abe. È lì perché il 20 e 21 novembre del prossimo sarà Riad a ospitare il vertice, ma quella presenza ha anche un valore simbolico che si porta dietro gli scherzi con Trump durante gli eventi comuni, le strette di mano con gli altri leader, i bilaterali. MbS è tornato accettabile.

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L’ALLEANZA CON GLI USA

L’aiuto americano – e non solo: MbS ha visto diverse altre delegazioni a Osaka – per rilanciare la spinta comunicativa al ruolo dell’erede sul futuro saudita non distoglie l’attenzione dal focus più pragmatico delle questioni. Trump ha sottolineato come l’alleanza con l’Arabia Saudita sia la chiave strategica per gli Stati Uniti nella regione mediorientale, resa particolarmente turbolenta in questo periodo dall’aumento delle tensioni nel confronto con l’Iran, che la Washington trumpiana ha ingaggiato anche come contropartita sul riavvicinamento ai sauditi. Trump ha toccato un tema delicato che però è parte della dimensione dell’alleanza: ha ringraziato MbS, che è anche ministro della Difesa e capo dell’intero comparto sicurezza del regno, per gli ordinativi militari. La questione è delicata perché il Congresso anche questa settimana ha votato per bloccare il percorso facilitato che alcuni contratti hanno preso dopo l’input amministrativo del dipartimento di Stato (rinforzi necessari per far fronte alle minacce iraniane li ha dichiarati Foggy Bottom per scavalcare i processi di concessione).

I legislatori intendono mantenere il ruolo e chiedere conto del caso Khashoggi e delle vittime civili in Yemen a Riad, prodotte dall’uso indiscriminato o negligente delle armi americane nella missione di soccorso al governo legittimo che i sauditi hanno lanciato tre anni fa per respingere l’avanzata dei ribelli Houthi (e confrontarsi per procura con gli iraniani, che hanno collegamenti con i separatisti yemeniti). Trump ha più volte detto che certe questioni sono importanti, ma la profondità dell’alleanza con i sauditi va oltre: conferma dal G20 di pensare ai contratti, ma anche al valore che hanno nel quadro del pensiero del presidente, che vede nel disimpegno uno dei suoi grandi obiettivi. Ossia: le armi che gli americani vendono ai sauditi, nella visione di Trump, potrebbero servire per garantire che Riad si faccia carico di maggiori impegni nell’impalcatura di sicurezza nel Golfo che Washington ha costruito e dal cui peso vuole alleggerirsi, spostandone parte sugli alleati.

(Foto: Twitter, @g20org)

 

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