Conversazione con il vicepresidente vicario del Coni, Silvia Salis: “Quello dell’uguaglianza di genere è un tema tutto economico sul quale in Italia occorre ancora fare moltissimo”. Le quote? “Servono ancora, ma sogno il giorno nel quale la rappresentanza femminile non sarà più un simbolo”
Qualcosa certamente, anche a livello iconico, ha iniziato a muoversi, ma a passo ancora troppo lento per ritenere che le cose siano definitivamente cambiate. “Quello dell’uguaglianza di genere è un tema fondamentale sul quale occorre fare ancora moltissimo”, ha commentato in questa intervista a Formiche.net il vicepresidente vicario del Coni Silvia Salis, che ha subito aggiunto: “Credo si faccia ancora troppa difficoltà a comprendere la natura profonda della questione, che è tutta economica: un Paese nel quale le donne sono al traino -in cui non lavorano, non producono e non possono fare figli perché non hanno soldi a sufficienza e perché il welfare non funziona – è un Paese più povero e più arretrato, che stenta inevitabilmente ad avere una visione di futuro”.
Salis – in passato campionessa italiana e olimpionica di lancio del martello – è una dirigente sportiva che, nonostante la giovane età, ha già ricoperto numerosi incarichi, dal gruppo sportivo delle Fiamme Azzurre alla Federazione Italiana di Atletica Leggera fino ai ruoli svolti al Coni al fianco di Giovanni Malagò: “Sogno il giorno nel quale la rappresentanza femminile non sarà più un simbolo, ma per adesso inevitabilmente lo è. Si pensi alla finanza, all’industria o a tanti altri settori economici: le donne, di fatto, non ci sono, non è che siano poche”.
Non è un caso, d’altronde, che ricevano così tanta attenzione da parte dei media notizie che, in fondo, dovrebbero costituire la normalità: “Ha fatto addirittura scalpore la nomina di una manager di altissimo profilo come Giuseppina Di Foggia alla guida di Terna, la prima amministratrice delegata di una delle grandi aziende partecipate dallo Stato”. La realtà – ha continuato il vicepresidente vicario del Coni – è che, fin quando si tratterà soltanto di pochi casi isolati, per quanto rilevanti, non ci sarà il cambiamento profondo di cui il nostro Paese avrebbe bisogno: “Questo discorso, infatti, non vale unicamente per le figure di vertice, ma anche, o forse soprattutto, per quelle intermedie dove pure l’Italia è ancora troppo indietro”.
E lo stesso si può dire della politica: “È vero che oggi abbiamo a Palazzo Chigi Giorgia Meloni, la prima presidente del Consiglio donna della storia italiana, e a capo dell’opposizione Elly Schlein, ma ricordiamoci cosa succede all’estero: l’Inghilterra ha avuto al potere Margaret Thatcher per oltre dieci anni già dal 1979, in Germania il cancellierato di Angela Merkel, durato ben 16 anni, ha segnato un’epoca a livello globale”.
Il punto è sempre lì, non si può dire che la situazione sta migliorando solo basandosi sulle storie straordinarie e specifiche delle singole persone: “L’evoluzione positiva c’è quando è nella media dei casi che è possibile osservare una tendenza positiva. E questo da noi non sta ancora avvenendo”.
La conferma in tal senso più eclatante arriva dai più recenti dati Istat sull’andamento del mercato del lavoro nel nostro Paese: “Il numero delle donne lavoratrici è in costante aumento ma l’incremento è troppo lento, tanto che siamo ultimi in Europa per occupazione femminile”. Il divario fra il nostro Paese e la media dell’Unione europea è cresciuto, passando dall’11,3% del 2004 al 14,4 del 2022: “Vent’anni fa avevamo meno donne che lavoravano, ma anche il divario con il resto d’Europa era minore”.
Una fotografia che conferma, ad avviso di Salis, l’esistenza in occidente di un caso italiano in materia di uguaglianza di genere: “Questi numeri è ovvio che abbiano un riflesso sulle posizioni di vertice e intermedie ricoperte dalle donne”. Se sono così poche quelle che hanno un impiego, è chiaro che sia ancora di meno chi riesce a fare carriera: “Siamo comunque un Paese in cui il 48% circa delle donne non lavora, non produce e non paga i contributi, con tutto ciò che di negativo ne può derivare”.
E dire che c’è ancora chi si ostina a considerarla una questione di pari opportunità: “Che poi ci vorrebbero le pari probabilità, altroché”, ha commentato Salis, che poi ha argomentato: “E’ chiaro che alle donne per legge debbano essere garantiti gli stessi diritti e le stesse occasioni, ci mancherebbe solo che non fosse così”. Ma non è sufficiente, come sperimentiamo ogni giorno: “Quello che dovremmo riuscire ad assicurargli sono le pari probabilità, ovvero le stesse possibilità previste per gli uomini di trovare un lavoro, fare carriera o arrivare a ricoprire determinate posizioni apicali”.
Ma poi – ha continuato il vicepresidente vicario del Coni con una domanda – “quanti ministri maschi per le Pari opportunità ci sono stati nel corso degli anni? Zero, nessuno: non ce n’è stato neppure uno”. Una circostanza che la dice lunga sul grado di comprensione di questo tema da parte della politica. “Però le quote servono ancora, e anche molto aggiungerei”, ha osservato Salis, secondo cui “sarebbe bellissimo che non fossero necessarie, ma l’esperienza e i dati concreti ci dicono esattamente il contrario, ovvero che senza la situazione sarebbe ancora peggiore”.
In questo percorso di crescita da realizzare a livello nazionale un contributo rilevante può anche arrivare dalla diffusione della pratica sportiva al femminile. In tal senso, è chiara la fotografia scattata dal recente rapporto dal titolo “Donne, lavoro e sport in Italia. Per la crescita dei territori e del Paese” curato dal Censis per conto di Fondazione Lottomatica, del cui Advisory Board la stessa Salis è componente (qui la gallery con le foto dei principali protagonisti dell’evento di presentazione).
Dallo studio Censis emerge come la donna che fa sport non stia solo meglio nel fisico e nella mente, ma sia anche meglio inserita nella società: lavora, studia, guadagna più di chi non fa esercizio fisico, ed è più moderna, in quanto aderisce a stili di vita e modelli di comportamento più evoluti e sostenibili. E poi le sportive possiedono titoli di studio più elevati di chi fa una vita sedentaria.
“Penso che iniziare a gareggiare in giovane età contribuisca a creare un assetto mentale ideale per essere indipendenti, competere e avere successo nel mondo del lavoro”, ha rilevato a questo riguardo Salis, per la quale lo sport dà un senso di potere fisico, che soprattutto per le donne può fare davvero la differenza: “Personalmente, ho praticato a lungo uno sport appannaggio fino al 2000 soltanto degli uomini: essere cresciuta nell’allenamento della forza, e quindi sentirmi via via sempre più forte, ha sicuramente modificato in meglio anche la mia predisposizione nei confronti della vita”.
Se guardiamo al mondo dello sport comunque, essere stati atleti di livello non è di per sé una condizione necessaria o sufficiente per riuscire a far bene nel ruolo di dirigente. Anche se, pure in questo caso, una differenza neppure troppo piccola tra uomini e donne esiste: “Alcuni dei più importanti manager del settore che ho conosciuto, a partire dal presidente Malagò, non sono stati sportivi di livello. Un aspetto, quest’ultimo, che costituisce quindi un valore aggiunto ma a patto di avere anche tutte le altre competenze – economiche, giuridiche, gestionali – che si richiedono tipicamente alle figure manageriali”.
Verissimo, certo, ma non per le donne, per le quali invece è valsa finora una logica diametralmente opposta: “Le dirigenti sportive o coloro che si sono occupate di sport a livello politico sono state sempre tutte campionesse di grande successo”. Basti pensare in tal senso a Manuela Di Centa o a Valentina Vezzali. Ma lo stesso metro si potrebbe applicare, per dire, anche a livello mediatico: “Chi è che commenta il calcio in televisione? Carolina Morace, che è stata un’autentica icona del calcio femminile, prima come giocatrice e poi come allenatrice. Per le donne è sempre un po’ più difficile, questa è la verità”.
Una fatica che è legata evidentemente anche a un altro problema, sempre di carattere economico, che attanaglia l’Italia: quello demografico: “Da noi si fanno così pochi bambini proprio perché siamo il Paese europeo dove le donne lavorano di meno. Inoltre, il welfare familiare stenta a dir poco a decollare: in alcune aree è del tutto assente mentre in altre funziona poco e male. Qualche isola felice esiste, ma appunto si tratta di eccezioni”. E chi ne fa le spese? Chi rimane a casa? “Le donne naturalmente, a cui da tradizione è attribuito il compito di occuparsi della famiglia”.
In questo senso Salis non ha dubbi: “Nella maggioranza dei casi non si fanno figli in Italia non perché le persone non vogliano, e ovviamente è più che legittimo decidere di non averne, ma perché fondamentalmente, per un motivo o per l’altro, non se lo possono permettere. E per fortuna che non viviamo più in un tempo in cui occorreva dividersi un tozzo di pane o un pezzo di formaggio”.
La verità è che su tematiche come queste – la demografia, l’uguaglianza di genere e moltissime altre ancora – occorrerebbero, accanto a incisivi interventi immediati, anche politiche di lungo termine, a 20 o a 30 anni: “È questa la condizione necessaria per il cambiamento, che certo non si può determinare con la logica del corto respiro. Giusto appunto quella troppo spesso perseguita dalla politica italiana, che mi pare un po’ affetta dalla malattia del taglio del nastro: non inaugura alcun progetto del quale non riesca a vedere la fine”. E, quindi, è inevitabile che si fatichi a cambiare davvero le cose, sul welfare come su tanti altri temi che richiederebbero invece barra dritta, visione e costanza.
Per questa ragione Salis ha voluto chiudere questa conversazione con un appello, che poi è anche un augurio, rivolto alla classe politica italiana: “Vorrei che tutti i partiti, quando sono al governo, si impegnassero a non smontare le decisioni assunte in precedenza solo perché adottate da un’altra parte politica. Il Paese ne trarrebbe grande beneficio. Dobbiamo dare continuità alle politiche pubbliche, altrimenti non riusciremo mai a voltare definitivamente pagina”.