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Terre rare, ma strategiche. La mossa della Cina e gli equilibri tecno-industriali con l’Occidente

Sono entrate ufficialmente in vigore le misure introdotte lo scorso febbraio dal Ministero del Commercio cinese. Pechino vieterà l’export di tecnologie e dispositivi per la raffinazione delle terre rare e la manifattura di magneti, due step abilitanti per la catena del valore e attualmente dominati dalle industrie nazionali. Ecco i possibili riflessi geopolitici e sui mercati…

Era solo questione di tempo. Dopo circa dieci mesi di preavviso il governo cinese ha introdotto ufficialmente le misure di export control su una lista di tecnologie ritenute sensibili per la sicurezza nazionale, e che includono una serie di macchinari e processi industriali per la raffinazione delle terre rare (REE). Misure che si aggiungono a quelle previste per gallio, germanio e la grafite.

Come noto, le REE (17 elementi della tavola periodica) sono entrate con prepotenza nel dibattito pubblico, al pari di altre materie prime come litio, cobalto e nichel per la loro criticità dovuta all’importanza del loro utilizzo in una serie di dispositivi tecnologici e al rischio di approvvigionamento per la concentrazione in pochi paesi della loro produzione.

Nel caso delle terre rare, in realtà sono quattro i metalli di terre rare (REM) che attualmente sono i più richiesti sul mercato: neodimio, disprosio, praseodimio e terbio. Grazie alle loro proprietà metallurgiche e chimico-fisiche, questi metalli sono difficilmente sostituibili su scala industriale per la produzione di magneti permanenti ad alte prestazioni per il loro impiego nei motori elettrici degli EV, i generatori delle turbine eoliche (principalmente offshore) e in alcuni sistemi militari. Le prime due applicazioni sono in forte crescita per la spinta verso l’elettrificazione della flotta automotive e l’installazione di impianti di energia eolica a livello globale.

Proprio per questa centralità, le terre rare sono come molti altri metalli al centro di un’intensa competizione internazionale che vede governi e aziende collaborare e competere per l’approvvigionamento sicuro e sostenibile in uno sforzo di diversificazione. Ma le misure imposte da Pechino sono comprensibile soprattutto in un’ottica di competizione geopolitica, dal momento che la Repubblica Popolare Cinese domina l’intera catena del valore, dall’estrazione (58%) ma soprattutto per la manifattura di magneti (92% della capacità globale), step abilitato dal know-how cinese sulla raffinazione e separazione dei singoli metalli (90%), che richiede circa 1.500 passaggi e caratterizzato da alta intensità di capitale e impronta carbonica.

Ma andiamo con ordine. Il 30 dicembre 2022 il Ministero del Commercio cinese (MOFCOM) ha pubblicato una proposta di “Catalogo per le Tecnologie Ristrette e Proibite all’Esportazione” che cancellava 32 voci preesistenti, ne modificava 36 e aggiungeva 7. In seguito alla chiusura di un periodo di consultazioni pubbliche, il Ministero ad ottobre di quest’anno non aveva ancora sciolto le riserve sul come e sul se implementare le misure. Nella giornata di ieri, è arrivata la conferma ufficiale.

Il catalogo contiene restrizioni e proibizioni su numerosi prodotti e tecnologie gelosamente custodite da Pechino, alcune meno rilevanti mentre altri lo sono decisamente di più. E’ diviso in due gruppi: la prima parte contiene tutto quello che viene proibito per l’esportazione, mentre la seconda elenca prodotti o tecnologie soggette a restrizioni, ovvero commerciabili con licenza a seconda di determinate circostanze. Il Catalogo è stato aggiornato due volte, la prima nel 2008 e la seconda nel 2020, con una notevole compressione delle voci elencate.

Secondo la definizione del MOFCOM nel Regolamento che disciplina l’import e l’export di tecnologie critiche, quest’ultimo si riferisce al trasferimento di tecnologia dalla Cina verso l’estero tramite commercio, investimenti o cooperazione economica o tecnologica. Tecnologie incluse Catalogo, dunque, sono soggette a misure di proibizione o restrizione a seconda della loro rilevanza per la sicurezza nazionale. Nel caso dell’industria e know how delle terre rare, i prodotti su cui vige la totale proibizione all’export include la tecnologia di produzione di metalli o leghe per la fabbricazione di magneti al samario (SmCo, utilizzati nei jet militari, come l’F-35), neodimio-ferro-boro (NdFeB), i più performanti sul mercato. Mentre per i dispositivi su cui grava il regime di restrizione, sono inclusi tecnologie di preparazione di materiali composti delle terre rare (in particolare, le terre rare pesanti come disprosio e terbio, su cui Pechino ha sostanzialmente un monopolio di produzione), di estrazione, raffinazione e preparazione dei materiali abilitanti.

Il Ministero del Commercio ha dichiarato che la revisione del catalogo “è una misura specifica adottata dalla Cina per adattarsi ai cambiamenti della situazione dello sviluppo tecnologico e migliorare la gestione del commercio tecnologico”. Un riferimento, velato, all’industria delle terre rare ma non solo. Al di fuori della Cina sono in fase di sviluppo più di venti progetti estrattivi, a diversi livelli e con varie incertezze sull’economicità nel medio-lungo periodo, che puntano a capitalizzare la domanda globale in seguito alla penetrazione di EV e all’installazione di turbine. Il punto è che il percorso midstream, che collega l’offerta di materie prime e i mercati end-use, rimane concentrato in Cina.

Stante la situazione, è improbabile che Pechino applichi o decida di richiedere licenze per l’export verso quei paesi in cui le industrie cinesi sono presenti per lo sfruttamento dei giacimenti di terre rare (come il Myanmar) da cui la dipendenza è cresciuta per l’importazione di materiali processati in loco (in parte per compensare la stretta cinese sulle attività domestiche per questioni ambientali e di controllo delle riserve nazionali). Ma anche se ciò avvenisse, questo avrebbe più ripercussioni sui produttori cinesi che non per gli altri (pochi) player internazionali: fuori dalla Cina ci sono solo due produttori attivi sul lato estrattivo e in minima parte su quello di processazione, ovvero l’australiana Lynas Corporation (che dispone di un impianto in Malesia) e l’americana MP Materials (che tuttora spedisce i concentrati di terre rare estratti nella miniera di Mountain Pass alla cinese Shenghe Resources, uno dei suoi shareholder, per le fasi di raffinazione e separazione).

L’aspetto che più preoccupa di queste misure riguarda la proibizione sulle tecnologie per la manifattura di magneti ad altre prestazioni (in sostanza, quelli che possono essere impiegati dagli OEMs europei e nordamericani), su cui si sostanzia la dipendenza dalla Cina. E’ una misura che, con le dovute proporzioni per dimensioni del mercato e ambiti di applicazione, è simile a quella varata dal Dipartimento del Commercio USA sull’export di macchinari EUV per la manifatturi di chip avanzati. La grossa differenza è che se esiste un mercato non-cinese per ASML e i produttori americani (come Applied Materials) con l’aumento delle fonderie, attualmente non esiste un mercato fuori dalla Cina per i l’utilizzo dei materiali magnetici downstream.

Ergo, se USA e UE vorranno insistere sul decoupling dalla Cina, in questo settore dovranno contemporaneamente emergere la domanda e l’offerta in un mercato sostanzialmente monopolistico (i prezzi di materie prime e metalli li decide la Cina con un sistema che avvantaggia i produttori nazionali downstream). Dunque, il punto interrogativo sarà se i grandi colossi dell’auto accetteranno forniture regionalizzate, ma a costi necessariamente premium. E’ questo il compromesso tra mercato e sicurezza, anche se è difficile trovare un’industria rilevante per l’economia mondiale (nel 2018 il Dipartimento dell’Energia USA stimava che circa il 50% delle merci importate negli Stati Uniti conteneva elementi di terre rare, per un valore di circa 1.2 trilioni di dollari) meno sottoposta ai vincoli e agli intrecci di potere con il Partito Comunista Cinese.

In breve, con questa mossa il governo di Pechino proibirà alle industrie cinesi (quasi tutte state owned-enterprises) che producono magneti di investire all’estero e contribuire così all’emergere di un ecosistema alternativo a quello della Cina (uno sforzo che, per esempio, è invece evidente nell’industria delle batterie elettriche per catturare il mercato UE, meno quello USA con le nuove clausole dell’Inflation Reduction Act), con l’eccezione del Giappone che (con l’8% del mercato) è l’unico paese che dispone di tecnologie e know-how in questo segmento industriale, ma ancora dipendente per oltre il 50% dalla Cina per l’import di terre rare raffinate e che non possiede la scala industriale per fornire i clienti europei ed americani.

Se nel breve-medio periodo l’equilibrio sembra favorevole al dominio della Cina, questa mossa probabilmente contribuirà a rafforzare la convinzione che un’eccessiva dipendenza da Pechino sia ormai insostenibile nel nuovo quadro internazionale, dove le tecnologie (e le materie prime) diventano asset per inibire l’avversario dal partecipare a più ampi network di produzione ad alto valore aggiunto. E’ dunque possibile che gli sforzi per trovare tecnologie alternative ai magneti di terre rare – Tesla ha annunciato lo scorso marzo di puntare alla sostituzione, mentre aziende come Niron Magnetics scommettono su soluzioni più sostenibili per l’industria eolica – o per ridurne la criticità con soluzioni circolari si moltiplicheranno nel prossimo futuro.

Quello che rimane meno certo è la finestra temporale e la scala industriale con cui questi sforzi potranno dare il loro contributo, sia per gli obiettivi finali (decarbonizzazione) delle politiche occidentali, sia per l’efficacia degli strumenti per raggiungerli. La Cina ha scommesso sui primi nell’investire così tante risorse, umane e di capitale, per diventare l’arsenale del Green Deal globale, dalle miniere ai magneti, alle batterie. Ora che anche l’Occidente torna a riflettere su costi e benefici del libero mercato in un mondo in cui il flusso dei dispositivi high-tech (come i chip) e delle materie prime critiche rappresentano le chiavi per il dominio tecno-industriale del XXI secolo, la Cina gioca ora a carte scoperte, sfruttando il suo controllo sui metalli. Come semplice ritorsione per l’offensiva USA sui semiconduttori o per una più ampia strategia a difesa della sua leadership di mercato? Staremo a vedere.

L’escalation è evidente. Difficile prevedere se verrà estesa in futuro ai prodotti high-tech, con restrizioni o proibizioni sui magneti. Tuttavia, considerando la forte integrazione tra l’industria cinese e i grandi player dell’automotive è difficile che Pechino possa e voglia urtare le esigenze dei clienti per colpire la classe politica occidentale. La mossa sulle tecnologie abilitanti è un messaggio chiaro: volete il disaccoppiamento e l’elettrificazione? Con i vostri capitali, ma non con la tecnologia cinese.

 


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