Il supporto all’Ucraina, le spese militari, ma anche il rapporto tra Stati Uniti ed Europa dopo la nomina di un nuovo segretario generale e la vittoria di Donald Trump alle elezioni Usa sono i temi principali su cui interrogarsi per capire quale sarà il futuro dell’Alleanza Atlantica. Ne ha parlato a Formiche.net Nicola de Santis, già vice segretario generale della Nato
A settantacinque anni dalla sua fondazione, la Nato rimane il principale foro politico e militare tra Stati Uniti ed Europa. Le nuove sfide portate dalla guerra in Ucraina e dall’emergere di nuovi attori obbligano oggi l’Alleanza Atlantica a riprendere il suo processo evolutivo. In questo contesto, la nomina di un nuovo segretario generale, Mark Rutte, e la rielezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti pongono non pochi interrogativi sulla direzione che prenderà tale evoluzione. Formiche.net ne ha parlato con Nicola de Santis, già vice segretario generale della Nato, che ha dato le sue impressioni sul presente e sul futuro dell’Alleanza.
Negli ultimi anni l’Alleanza è stata guidata da Jens Stoltenberg, un norvegese. Oggi invece il nuovo segretario generale, Mark Rutte, proviene da uno Stato membro dell’Ue, i Paesi Bassi. Quali sono, a suo avviso, le sue priorità?
Risulta sempre difficile, per un funzionario internazionale, parlare di un nuovo capo che è stato lì per un solo mese. Credo che il segretario generale abbia ribadito sin dall’inizio che le sue priorità, che poi sono in linea con le decisioni del vertice di Washington, sono tre. La prima è la difesa, che ci siano le risorse finanziarie, ma anche gli uomini e le capacità atte a far sì che i piani regionali siano efficaci nella difesa del territorio alleato. Ricordo che i tre piani regionali coprono tre aree fondamentali di quella che noi chiamiamo l’area di competenza della Nato. La Nato ha un’area di competenza, che è quella della difesa dei Paesi Membri e un’area di interesse strategico, che è quella dei Paesi Partner. L’area di competenza, quindi la deterrenza e la difesa, è la prima priorità che il segretario generale ha pubblicamente definito anche durante la conferenza stampa con il presidente Meloni. La seconda è l’Ucraina, che non sia sopraffatta e che l’integrità territoriale di questo Paese sia ristabilita, oltre a far sì che non ci sia un’estensione di questo conflitto. Entriamo quindi in una fase di containment, diversa dal passato, nei confronti della Federazione Russa. La terza priorità, nota come cooperative security, consiste nei partenariati con i Paesi del sud, dell’Indo-Pacifico e dell’Unione europea.
E riguardo all’idea di rafforzare il “pilastro europeo” dell’Alleanza?
Credo che il segretario generale stia lavorando molto, già dall’inizio, al rafforzamento del pilastro europeo all’interno della Nato e questo lo testimonia anche il fatto che si è incontrato con Ursula von der Leyen. È stato addirittura deciso di stabilire una task force per lavorare insieme, tra la Nato e l’Unione europea, per creare questa complementarità su più piani.
Invece sullo scenario che si apre adesso con Trump? Ricordiamo bene che, durante il suo primo mandato, il rapporto con la Nato non è stato facile. Oggi vediamo un’Europa, se vogliamo, un pò “spaventata” all’idea di una nuova amministrazione Trump. Come vede il ritorno di Trump all’interno della Nato con un nuovo segretario generale europeo e nel rapporto Europa-Stati Uniti all’interno dell’Alleanza?
Innanzitutto, la democrazia è forza di numeri. C’è stata un’elezione, c’è un Senato, c’è un presidente. La Nato è un’organizzazione intergovernativa, sono quindi i governi dei Paesi membri che ne dettano la guida e ovviamente, ogni volta che c’è un’elezione nei Paesi dell’Alleanza, possono esserci delle caratterizzazioni diverse, degli accenti diversi sulla politica estera. Personalmente, non credo molto in questo allarme. Sicuramente ci saranno dei cambiamenti ma non credo che gli Stati Uniti possano prescindere dal legame transatlantico. La complessità delle sfide alla sicurezza e delle minacce che fronteggiamo oggi fanno sì che nessun Paese possa far fronte a queste sfide e garantire la sicurezza delle proprie popolazioni da solo. Non credo che il legame transatlantico sarà messo in discussione, ma potranno esserci caratterizzazioni diverse.
Crede che Rutte sarà in grado di tenere insieme l’Alleanza nonostante le diverse sensibilità?
Il rapporto tra un segretario generale come Mark Rutte, che non dimentichiamo è stato primo ministro per 14 anni (quindi abituato, con governi di coalizione, a creare il consenso), e la Nato si regge sulle decisioni del consenso, cioè la capacità di mediare. Credo che Rutte, che ha avuto anche un certo rapporto con il presidente Trump, sia la persona adatta per gestire questa fase, proprio perché proviene da un Paese e da una forza politica che, fondamentalmente, è sempre stata da un lato transatlantica e dall’altro europeista. Credo sia stata una scelta ottima per gestire la complessità di questa fase della politica di sicurezza e di politica estera e internazionale.
Il confronto tra Meloni e Rutte ha visto l’Italia come uno dei primi Paesi Alleati visitati dal nuovo segretario generale. Che impressione ha avuto dal confronto
Credo il segretario generale sia stato molto chiaro, nel point de presse avuto a palazzo Chigi con Meloni, nel riconoscere il ruolo fondamentale dell’Italia all’interno dell’Alleanza. Ha messo in evidenza come l’Italia sia il primo contributore europeo di forze militari alle operazioni della Nato, come attestato dalla guida del battlegroup in Bulgaria, dalle forze schierate in Lettonia, in Ungheria, dal dispositivo navale e di difesa antiaerea nel sud e dai due quartieri generali che abbiamo a Napoli e a Sigonella. Il fatto stesso che il segretario generale della Nato sia stato, nel primo mese di incarico, due volte in Italia (ricordo la riunione dei ministri della difesa del G7) ha sottolineato il ruolo dell’Italia. Voglio ricordare che l’Italia è il quinto contributore ai tre bilanci della Nato, quello politico, quello militare e quello sulle infrastrutture della sicurezza.
E riguardo alla questione, invero spinosa per l’Italia, del 2%?
La questione del 2% non va troppo enfatizzata. Il 2% è un obiettivo che i Paesi si sono dati, e lo raggiungeranno ciascuno secondo le dimensioni interne. Tale obiettivo è legato alla capacità di sviluppare la difesa, cioè la possibilità di investire sul piano della difesa. Fu proprio Trump a chiedere agli europei di chiudere questo gap, un gap che oggi è fondamentale. Questo perché davanti al sostegno che i Paesi autocratici (Cina in primis) danno alla ricostituzione dell’industria bellica russa, il fatto che l’Europa possa avere dei bilanci che consentano ai Paesi europei membri della Nato di sviluppare queste capacità di difesa è cruciale. Questo se vogliamo continuare a mantenere la sicurezza e la difesa delle nostre popolazioni e delle nostre società.
Non possiamo non fare un accenno al quadrante Sud, il quale è sempre più caotico. Ci aspettiamo che l’Alleanza possa porre maggiore attenzione a questo quadrante. Secondo lei, che tra l’altro è stato per anni a capo della sezione Medio Oriente e Nordafrica della Nato, tra Stoltenberg e Rutte ci sarà un cambio di approccio a questo scenario?
Anche qui, il segretario generale vi ha fatto cenno durante la conferenza stampa, quando ha parlato del ruolo che l’Italia ha avuto al vertice di Washington, in cui è stato approvato un piano di azione per il rilancio delle due dimensioni del lavoro che la Nato ha svolto, dal 1994 fino ad oggi, con i Paesi partner, i quali vanno dal Nordafrica al Mediterraneo, includendo i Paesi arabi del Golfo.
In cosa consistono le decisioni prese a Washington?
In quello che ha sottolineato Rutte, ovvero rafforzare la dimensione politica con i Paesi partner della regione, possibilmente estendendo l’iniziativa alle altre istituzioni regionali, come il Consiglio di cooperazione del Golfo e l’Unione africana. Inoltre ha deciso di sviluppare programmi di cooperazione bilaterale con questi Paesi affinché possano sviluppare, nel settore della difesa e della sicurezza, una resilienza che consenta loro di fare fronte alle minacce e alle sfide alla sicurezza, sviluppando il know-how e le capacità che l’Alleanza può condividere con questi partner, come con altri Paesi. Tutto ciò affinché si possa collaborare insieme per creare condizioni di sicurezza e di stabilità in regioni che hanno un impatto diretto sulla sicurezza dell’Alleanza. È chiaro che il Mediterraneo e il Medio Oriente hanno un impatto diretto su tutti i Paesi dell’Alleanza, soprattutto su quelli del Sud, che sono più esposti rispetto ad altri.
Venendo all’Ucraina, lei ha spiegato che l’obiettivo è non allargare il conflitto, eppure l’arrivo al fronte di soldati nordcoreani sembra portare nella direzione opposta. Come vede questo quadro adesso?
Il quadro sicuramente sicuramente si complica. Già la partecipazione dell’Ucraina nel partenariato per la pace ha fatto sì che gli aiuti che gli Stati membri hanno fornito a questo Paese andassero a tradursi in addestramento, anche attraverso l’interoperabilità, che consente oggi all’Ucraina — chi l’avrebbe mai detto — di tenere in scacco la Federazione Russa. La Russia riteneva che avrebbe spazzato via gli ucraini in una settimana e invece questo non è avvenuto. Ora siamo in una situazione di stallo.
A cosa punta la Russia impiegando i soldati di Pyongyang?
C’è il tentativo di Putin di creare questo legame (il che è una fonte di preoccupazione per l’Alleanza) con i Paesi autocratici, dall’Iran alla Cina e oggi anche alla Corea del nord. Sarà interessante vedere se questi soldati mandati dalla Corea del nord saranno in grado di agire efficacemente sul campo di battaglia oppure se sono stati mandati al massacro, giacché non credo che si siano mai addestrati al tipo di terreno, di conflittualità e di tattiche che ci sono in Ucraina. Credo che il vero punto sia il legame politico tra Russia e Corea del nord. Legame che potrebbe non piacere alla Cina, perché stabilisce un legame diretto tra la conflittualità europea e quella nell’Indo-Pacifico. È interesse della Cina, un Paese che ha un volume di commercio con l’Europa di 890 miliardi di dollari all’anno contro i 250 miliardi della Federazione Russa, che avvenga questo? Questa è una cosa che dovremo tenere sotto osservazione.