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Vittoria di Pirro? La lettura di Polillo sul conflitto in Ucraina

Con l’avvicinarsi dell’insediamento di Trump si avvicina anche l’apertura di un nuovo capitolo del conflitto. Forse l’ultimo. Ma la situazione è molto meno rosea per Mosca di quanto si possa pensare. Nonostante alcune narrative

C’era da scommetterci. Era prevedibile che, al primo segnale di debolezza di Volodymyr Zelensky, gli sciacalli sarebbero usciti dalla tana per ululare alla luna. Ve l’avevamo detto. Era del tutto inutile resistere. Era meglio cedere subito alle richieste del più forte. Si sarebbero risparmiati lutti e distruzioni. Sono quasi tre anni di guerra, che è servita esclusivamente ai signori della morte. Vale a dire a quei fabbricanti di armi che hanno avuto ritorni milionari, mente il popolo, non solo quello ucraino, tirava la cinta.

La caccia alle streghe non è solo contro il comandante in capo dell’esercito ucraino. Gli anatemi sono anche contro Mark Rutte, il segretario della Nato, che propone, comunque, di sostenere militarmente gli aggrediti, anche qualora si dovessero aprire i colloqui di pace. Sennonché questa ulteriore inutile resistenza non farebbe altro che aumentare il numero dei morti e dare a Vladimir Putin ulteriori vantaggi negoziali: insistono gli sciacalli. Un ragionamento sempre uguale a sé stesso: “Guai ai vinti”. Come nell’episodio narrato da Tito Livio per l’antica Roma. Che nel caso dell’Ucraina si traduce in “guai ai più deboli”, che non possono far altro che cedere alle richieste dei loro carnefici.

Ma è logica una simile ipotesi? Mettiamo che l’Ucraina fosse fin dall’inizio disponibile ad un compromesso. Quale poteva esserne il contenuto, vista la sua posizione di debolezza. Putin si sarebbe limitato a richiedere solo il Donbass e se, invece, avesse chiesto Kiev, per mettere un suo uomo a capo di tutta l’Ucraina. Anzi, vista l’incapacità di reagire del suo futuro vassallo, con ogni probabilità non si sarebbe limitato, come non si era limitato nel caso della Crimea. Anche in quel caso concessa per quieto vivere. E poiché l’appetito vien mangiando, avrebbe poi potuto pretendere altre concessioni territoriali approfittando della pavidità dell’Occidente.

Lo schema di gioco che ci propongono i putiniani non può essere delimitato a priori e, quindi, parteciparvi non è razionale. Troppa la differenza con l’oggi. Lo sviluppo della situazione ha dimostrato che né la Russia, né l’Ucraina, supportata dall’Occidente, possono vincere. La trattativa pertanto non può che svolgersi in questo perimetro e portare alle necessarie mediazioni. Ma l’Occidente del prossimo 20 gennaio, con il passaggio dei poteri nelle mani di Donald Trump, non sarà più lo stesso. Il che è vero. Sennonché, il nuovo presidente americano, a sua volta, non potrà prescindere dalla situazione che si è determinata sul campo di battaglia. Se si comportasse diversamente, darebbe una dimostrazione di debolezza che mal si concilierebbe con il ruolo internazionale degli States. Quindi attenti a vendere prima la pelle dell’orso. La storia può riservare amare sorprese.

Comunque sia – altro tripudio dei teorici dell’appeasement (do you remember Chamberlain) – Putin sta vincendo. Davvero? Doveva essere una semplice “operazione militare speciale”, “breve come un fiocco di neve” come canta Francesco De Gregori (Gesù bambino) ed invece è durata quasi tre anni, con migliaia di morti da entrambe le parti. Se questa è una vittoria, è stata una vittoria pagata a caro prezzo. Ottenuta ricorrendo alla presenza di mercenari vari: dalla Wagner, ai Coreani del Nord o alle milizie yemenite.  Grazie a tecnologie belliche fornite da potenze di rango inferiore. E l’esborso di milioni di dollari. Comunque, pur con dei limiti così evidenti, questa battaglia può essere vinta dalle truppe di Mosca. Ma si tratterà, pur sempre, di un semplice episodio, non della fine della guerra. Che senza una pace condivisa, continuerà seppure in forme ibride ed imprevedibili, come ha mostrato la vicenda dell’Iraq, dopo il rovesciamento di Saddam Hussein.

Nel frattempo, tuttavia, la posizione internazionale della Russia non sembra essersi rafforzata. È accaduto il contrario. Una grande potenza planetaria che non riesce ad avere la meglio su un piccolo popolo di combattenti. Che si muove violando tutte le regole internazionali, determinando la reazione dei Paesi neutrali: Svezia e Finlandia che decidono di entrare, dopo 75 anni dalla sua nascita, nella Nato. Alla periferia del suo impero, o di quel che rimane, il suo avamposto siriano che si scioglie come neve al sole. Bashar al-Assad, che fugge di notte, come un ladro di polli, lasciando dietro di sé una scia di sangue, di cui le élite russe sono corresponsabili. L’asilo che Putin è costretto a concedergli peserà sui rapporti internazionali. Dimostrerà ancora una volta la sua inaffidabilità. Nel frattempo le basi di Khmeimim e Latakia, che assicuravano alla Russia una presenza minacciosa nel Mediterraneo, con ogni probabilità saranno smantellate.

In precedenza la Turchia aveva chiuso il passaggio alle navi da guerra negli stretti dei Dardanelli, il Mar della Marmora ed il Bosforo, isolandola ancor di più. Lo aveva potuto fare, grazie alla Convenzione di Montreux, che in caso di guerra le consentiva di impedire quei passaggi. Finché era in atto la finzione della “missione militare speciale” non ricorrevano gli estremi per poter agire. Ma quando il conflitto iniziale, per il trascorre del tempo e la virulenza dei combattimenti, si era trasformato in una vera e propria guerra, era sempre più difficile per Ankara continuare a guardare  la testa da un’altra parte.

Non è il solo smacco subito. Nel quadrante est del Mediterraneo, i suoi alleati più fedeli, dipendenti dall’Iran, stanno vivendo i giorni bui di una possibile debacle. Hamas, gli Hezbollah, i corsari yemeniti, dopo l’orrore, ma anche l’errore, del 7 ottobre hanno risvegliato la forza militare di Israele. E pagato, con la loro distruzione, le conseguenze di un agire che, in qualche modo, era figlio, seppure illegittimo, della rottura che Mosca aveva determinato nello sviluppo delle normali relazioni internazionali. Se queste ultime potevano essere violate con tanta facilità, sostituendo alle armi della ragione, la ragione delle armi, perché non approfittarne? 

Il successo di Benjamin Netanyahu, non è stato solo militare ma politico. La sua abilità è stata quella di aver inserito Israele nello storico conflitto tra sunniti e sciiti che, da tempo immemorabile, divide il mondo musulmano. Appoggiando i primi contro i secondi. Da questo punto di vista il ritorno di Donald Trump non farà altro che favorire ulteriormente questa strategia. Con ogni probabilità, già nel 2025, si vedranno gli sviluppi legati all’implementazione degli accordi di Abramo. Sottoscritti tra Israele, gli Emirati Arabi e gli Stati Uniti avevano la copertura di un convitato di pietra – l’Arabia Saudita – che potrebbe, ora, uscire allo scoperto. Consolidando in tal modo la presenza americana nell’intera area.

Analizzando, uno per uno, gli episodi ricordati è possibile vedere il seppur lento rinculare della presenza russa nei vari scacchieri internazionali, mentre sullo sfondo resta, il capitolo cinese. Dalla guerra sugli Ussuri, che diede luogo al conflitto russo – cinese sono passati quasi 50 anni, ma le ragioni di quello scontro sono ancora tutte lì: 4.250 ragioni. Tante quanti sono i chilometri del confine che divide i due territori. Se si considera che gli ultimi accordi relativi risalgono al 2006, si può comprendere quanta forte sia la sensibilità per l’argomento da parte di entrambi i dirimpettai.

Ultima, last but not least, considerazione infine: la prospettiva. La Russia si estende per oltre 17 milioni di chilometri quadrati. La regione del Dombass di chilometri ne ha 50 mila. Solo un fazzoletto di terra, pari ad appena lo 0,3%, di un territorio sterminato e poco popolato. Per questa conquista, i russi morti in battaglia sono stati pari ad oltre 600 mila unità. Sconosciuto il numero dei feriti. La sua economia è divenuta sempre più dipendente dal complesso militare – industriale. L’inflazione è alle stelle (8/9 per cento l’anno), mancano i generi alimentari (uova e burro), il rublo ha perso, solo quest’ultimo anno, il 14 per cento del suo valore, raggiungendo i minimi dell’inizio di quella tragica avventura. 

Se la situazione, per quanto provvisoria, dovesse essere quella delle due Coree chi provvederà alla ricostruzione delle zone che l’attacco russo ha desertificato e contaminato? Villaggi distrutti, fabbriche chiuse, infrastrutture da ricostruire, abitazioni da demolire e poi da riedificare. Alcuni economisti sostengono che questi accresciuti impegni consentirebbero al Cremlino di accelerare il processo di riconversione industriale: dal bellico al civile. É anche possibile. Sennonché tutto ciò richiede la disponibilità di ingenti capitali oltre che di una tecnologia adeguata che, al momento, non sembra essere disponibile, proprio a causa dello stress bellico subito. 

Attualmente, in Russia, il tasso di interesse di riferimento della Banca centrale è pari al 21%, in procinto di aumentare prossimamente di altri due punti base. È il segno vistoso di una domanda di capitale che non trova rispondenza nei volumi interni di risparmio. Uno squilibrio destinato a crescere se si volesse intraprendere la ricostruzione del Donbass. Che, con ogni probabilità, per molti anni sarà invece abbandonato a sé stesso. Fino a divenire un nuovo focolaio di infezione permanente. Un bilancio realistico del pro e del contro non lascia dubbi. È stato puro avventurismo. Un gioco a saldo negativo che non potrà assumere un segno diverso solo per il latrare di alcuni laudatores


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