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Vi spiego le ragioni di Trump e i limiti dell’Europa. L’analisi di Polillo

Le posizioni di free rider quando è in corso una guerra, com’è quella ai confini dell’Europa, hanno sempre meno corso legale. In qualche modo anche la Slovacchia e l’Ungheria contribuiscono a sostenere la resistenza dell’Ucraina, fornendole le armi necessarie. Alcune delle quali sono poi anche usate per bombardare l’oleodotto Druzhba. E quindi nuocere all’economie di quei Paesi. Il corto circuito è così evidente. Così come l’insieme delle contraddizioni che ne sono all’origine. L’analisi di Gianfranco Polillo

Avevamo accennato ai limiti di una governance europea che non riesce a contrastare i free rider che operano al proprio interno (“Quelle porte girevoli che indeboliscono l’Europa”, Formiche, 13 settembre). Sull’argomento, con un peso ovviamente diverso, è intervenuto Donald Trump, invitando i Paesi della Nato, a non fargli sprecare “tempo” insieme all’ “energia e il denaro degli Stati Uniti”. Accusa stizzosa, come si vede, ma purtroppo non scevra di senso.

L’accusa si riferisce al fatto che molti dei Paesi Nato, non solo non si sono “impegnati al 100%”, ma “l’acquisto di petrolio russo da parte di alcuni è stato scioccante!”. Circostanza quest’ultima che, ovviamente, ha impedito il ricorso a dazi secondari pari al 100% a carico di coloro che contribuivano, per questa via, al finanziamento della guerra. Se, invece, si fosse seguita quella strada, colpendo anche “la Cina, si sarebbe interrotta la presa di quest’ultimo Paese sulla Russia. Si sarebbero così salvate “migliaia di vite russe e ucraine (7.118 vite perse solo la scorsa settimana. Pazzesco!).” Per poi concludere “se la Nato fa come dico, la guerra finirà rapidamente e tutte quelle vite saranno salvate”. Altrimenti è solo inutile retorica.

Pochi numeri per dimostrare la valenza economico-militare del ragionamento di Trump. Il petrolio ed il gas, ancora oggi, rappresentano il 55% delle esportazioni russe. Pesano per il 15% sul Pil russo e garantiscono almeno un terzo delle entrate statali. Risorse indispensabili ai fini del finanziamento dello sforzo bellico. La valenza strategica di queste poste è tale da far temere che un’eventuale riduzione del prezzo del petrolio – al di sotto dei 50 dollari al barile – determinerebbe un forte aggravio del deficit di bilancio e l’innesto di una possibile recessione.

C’è poi un aspetto qualitativo – simbolico che non può essere trascurato. La produzione di idrocarburi rappresenta il nocciolo duro del capitalismo monopolistico di Stato. Nella particolare configurazione del complesso militare – industriale che oggi domina l’economia di Mosca. La sua costruzione iniziò nel 2003 con l’arresto per frode dell’oligarca Michail Chodorkovskij, cui fece poi seguito la nazionalizzazione della sua compagnia petrolifera Jukos, che fu acquisita dalla Rosneft. Divenuta la più grande società petrolifera quotata in borsa del mondo. Nel 2005 Gazprom (azienda leader nel gas naturale, al 50,2% statale), che oggi controlla il 18% delle riserve mondiali di gas, acquisì, a sua volta, la Sibneft, altra grande azienda petrolifera, ricostituendo le basi per una progressiva estensione della mano pubblica sull’economia. Colpire quindi il settore degli idrocarburi è come abbattere il cuore pulsante dell’intero sistema.

Circostanza che spiega la dura rampogna di Trump. Diretta, innanzitutto contro la stessa Ue che compra ancora dalla Russia circa il 7% del suo fabbisogno energetico. Numeri, tuttavia, su cui è difficile giurare. Comprare petrolio e gas non è come andare al supermercato e controllare le varie etichette del luogo di origine della produzione. Le molecole degli idrocarburi non hanno impronte digitali. Una volta importati, specie se raffinati in loco, diventano prodotti di cui è impossibile verificarne la provenienza. Nonostante questi limiti oggettivi, qualcosa si dovrà pur fare, se non altro per accogliere l’invito di Ursula von der Leyen a “sbarazzarsi della sporca energia russa il prima possibile”.

Prima di quel duro richiamo, la Commissione europea aveva già deciso di sbarazzarsi delle importazioni di gas e di petrolio dalla Russia. Correva l’anno 2022 e le truppe russe avevano appena varcato i confini dell’Ucraina. Sennonché, nel 2024, la stessa Commissione aveva poi dovuto constatare che ben pochi progressi erano stati realizzati. Da qui il varo di un nuovo piano, ancora in fase di gestazione. Dovrebbe vedere il completo stop delle forniture russe alla fine del 2027. Nel frattempo una serie di passi intermedi quali il divieto dal 1 gennaio 2016, di firmare nuovi contratti di fornitura. Quindi il blocco dei contratti a breve entro il 17 giugno 2026 e di quelli a lungo termine con la fine del 2027. Uniche eccezioni previste per quei Paesi, come la Slovacchia e l’Ungheria, che non hanno sbocco al mare. A ben vedere non proprio la solerzia che pure sarebbe necessaria.

Altro passo l’individuazione dei cattivi. Nel libro nero, tra i primi figurano la Turchia, la Slovacchia e l’Ungheria. La prima, terzo importatore dopo la Cina e l’India, acquista la materia prima dalla Russia, la tratta nelle raffinerie e poi la riesporta anche in Europa. Dando luogo a quelle triangolazioni che non è facile smontare. A questo business del resto partecipa anche l’India, con le sue produzioni di diesel e di carburante per gli aerei, che vende a diversi Paesi europei, compresa l’Italia. Mentre la Francia non sembra disdegnare le forti importazioni di gas.

I casi più eclatanti restano tuttavia quelli della Slovacchia e dell’Ungheria, direttamente servite dal oleodotto Druzhba (l’oleodotto dell’Amicizia), di origine sovietica. Entrato in esercizio dal 1964, da allora ha continuato a rifornire molti Paesi dell’Europa centrale. Alcuni dei quali, ultima è stata la Repubblica Ceca, hanno tuttavia interrotto i rapporti commerciali da tempo o a seguito della guerra in Ucraina. Resistono invece la Slovacchia e l’Ungheria, che in passato avevano ottenuto delle deroghe a causa della loro lontananza dal mare e, quindi, della difficoltà di potersi rifornire con altri mezzi.

Oggi, tuttavia, stante anche le diverse posizioni assunte in politica estera, quella situazione non regge più. Le critiche, non solo da parte americana, sono diventate sempre più numerose. Come quella di Antonio Costa, presidente del Consiglio europeo che, dopo aver invitato entrambi i Paesi a recidere quei legami, li ha accusati di essere tra i principali acquirenti di quei prodotti tossici. Naturalmente non sarà facile giungere ad una soluzione condivisa, ma non perché non vi siano alternative. La Norvegia o l’Azerbaigian, ad esempio, sono tecnicamente in grado di sostituire le forniture russe. Vi sarà semmai un problema di natura finanziario. Ma esso potrà essere affrontato e risolto a livello europeo. Sempre che Orban e Fico si considerino cittadini europei e non sudditi di Putin.

Ma il punto vero è proprio questo. Le posizioni di free rider quando è in corso una guerra, com’è quella ai confini dell’Europa, hanno sempre meno corso legale. In qualche modo anche la Slovacchia e l’Ungheria contribuiscono a sostenere la resistenza dell’Ucraina, fornendole le armi necessarie. Alcune delle quali sono poi anche usate per bombardare l’oleodotto Druzhba. E quindi nuocere all’economie di quei Paesi. Il corto circuito è così evidente. Così come l’insieme delle contraddizioni che ne sono all’origine.


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